Cultura
Padre Bianchi: coltivare la fiducia per nutrire la comunità
«Nel nostro ambiente culturale ci sono parole cariche di grandi significati. In questa stagione due sono le parole che hanno avuto più rilevanza e segnato la storia della civiltà occidentale: sessualità e comunità. Sono parole evocative attorno alle quali ci sono stati tentativi di rivoluzione culturale»
di Marco Dotti
La fede, ci racconta padre Bianchi, priore della Comunità di Bose, «non è adesione a una verità dello stesso ordine delle esperienze sensibili, ma un cammino verso il non conosciuto». Per questo la fede espone a un rischio. Ma espone anche a una certezza. La fede, prosegue infatti Enzo Bianchi, è un itinerario intimamente umano. Se la fede è difficile? «Certamente, proprio per questo dobbiamo pensarla come quell’atto, di cui ci testimoniano le Sante Scritture, che consiste nel mettere il piede sul terreno solido». Incontriamo padre Bianchi che incontriamo alla Cittadella di Assisi dove ha tenuto una lezione proprio sul rapporto tra fiducia e comunità nel colloquio su “Comunità, trauma e sogno nel mondo plurale".
In questa ricerca di un terreno solido, la fede appare come «necessità umana e realtà antropologica fondamentale». Una fides qua, rimarca Bianchi, ribadendo un interessante distinguo teologico. Fides qua, ovvero l’atto del credere, col quale il credente si affida a Dio, assumendo il contenuto delle fede come vero. Fides quae, ossia il contenuto della fede. La «fides qua» è la fede con la quale si crede, l’adesione libera di un affidamento. Oggi, non solo la fede in qualcosa, ma la fede in sé, e la stessa fiducia sembrano minate alla base dal sospetto, dalla precarietà, dall’incertezza, dalla frammentazione del reale e dalla lacerazione del soggetto: effetti perversi di una crisi di cui a fatica percepiamo i risvolti non puramente finanziari. Ma oggi, proprio oggi, chiediamo a padre Bianchi, in un mondo che ha già sperperato ogni fiducia, si può vivere senza un’ultima riserva di fede? «Non c’è vita senza fede. Come scriveva un grande teologo: “se io non credessi a nessuno, fosse pure in modo minimale, finirei per impazzire, e molto rapidamente».
Comunità è una parola a doppio taglio, spesso declinata in modo tale da suscitare sospetti, eppure…
Nel nostro ambiente culturale ci sono parole cariche di grandi significati. In questa stagione due sono le parole che hanno avuto più rilevanza e segnato la storia della civiltà occidentale: sessualità e comunità. Sono parole evocative attorno alle quali ci sono stati tentativi di rivoluzione culturale. A queste due parole vorrei aggiungere come sottotitolo “grandezza e miseria”. Perché evocano sogni, ci donano grandi speranze, ma nello stesso tempo ci segnano nella miseria e col trauma.
Il tema della comunità è emerso con forza alla metà del XX secolo, poi una crisi che dura fino ai nostri giorni.
Negli anni ’50 hanno preso il via molti itinerari comunitari che prima erano pressoché inesistenti in un continente lacerato dalle guerre mondiali. L’apice dell’esperienza comunitaria coincide con gli anni ’60 quando la prima forza globalizzatrice fu la Chiesa Cattolica con il Concilio. In quegli anni l’idea di comunità ha avuto una grande forza. In questi anni, la cosa più importante era “prendere la parola”, come avveniva nei movimenti studenteschi e operai in Francia come in Italia e in altri paesi europei. Ma a partire dagli anni ’70 irrompe nella scena politica la violenza e con la violenza si dà sfogo a una esasperazione dell’individualismo. È l’epoca del desiderio che si vuol far valere sic et simpliciter come diritto. È dunque agli anni ’70 del secolo scorso che risale la prima crisi della comunità.
La voglia di comunità viene sostituita dal consumismo e dall’individualismo.
Il consumismo si nutre di individualismo e viceversa. Quando questi due elementi irrompono sulla scena, entra in atto una crisi dell’orizzonte comunitario e così agli inizi degli anni ’90 assistiamo a un vero e proprio declino della comunità che dura fino a oggi. Oggi non vediamo alcuna possibilità di orizzonte comunitario né a livello politico, né economico o sociale. Eppure noi diventiamo uomini con la comunità, l’umanizzazione si attua con la communitas.
Possiamo sperare in un’inversione di rotta, in un movimento che si faccia communitas?
Il movimento per rifare la comunità si può fare solo con l’educazione. In Italia c’è da chiedersi se si stia andando in questa direzione.
L’educazione è il settore più colpito, anche simbolicamente, dalla crisi della comunità…
Noi ci muoviamo verso il modello della cultura americana che afferma che il bene comune coincide con la felicità individuale. Invece nella cultura cristiana il principio fondamentale deve essere il bene comune, non la felicità personale. Se manca il bonum communis manca la comunità. Se mettiamo la felicità individuale al centro di tutto, saremo autorizzati a perseguirla a scapito di quella altrui.
In sostanza, su che cosa si fonda una comunità?
La comunità quindi si nutre di fiducia, nasce e si sostiene con la fiducia, non con l’amicizia né con la simpatia e l’amore. In tutta questa crisi sappiamo che esiste una grave crisi di fede per la Chiesa mentre per la società si tratta di una crisi di fiducia. Il problema della società occidentale è il venir meno della fede. I quotidiani parlano di crisi di fiducia nei mercati finanziari e nel domani. Ma come è possibile avere fiducia nel mercato se abbiamo smarrito persino il sentimento stesso della fiducia? Anche nei rapporti personali si riflette oggi questa crisi: chi crede ancora che sia possibile oggi una storia d’amore? L’evangelista Giovanni dice che ci afferma di credere al Dio che non vede, ma non crede al fratello accanto a lui è un bugiardo.
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