Mondo

A Kandahar piovono protesi dal cielo

È quello che accade nella scena più commovente di Viaggio a Kandhar. Il film dell'iraniano Makhmalbaf

di Antonio Autieri

Fino a un mese fa era solo un capolavoro. Oggi, alla luce dei tragici fatti seguiti agli attentati terroristici dell?11 settembre, è anche uno sconvolgente ritratto d?attualità. Parliamo di Viaggio a Kandahar, ultimo film del maestro iraniano Mohsen Makhmalbaf. Per la critica e i cinefili occidentali è un mito, in patria, a parte qualche consueta difficoltà con la censura, è considerato un potente capoclan (sono registi anche la moglie e la figlia). Il suo film forse più bello, e sicuramente il più coraggioso, è ambientato nel vicino Afghanistan. Presentato in concorso all?ultimo festival di Cannes, racconta la disperata corsa contro il tempo di Nafas, una donna afghana scappata dal proprio paese anni prima, durante la guerra civile dei Talebani. L?amata sorella ha deciso di togliersi la vita, schiacciata da una società repressiva che considera la donna meno che un oggetto e le infligge insopportabili umiliazioni. Priva delle gambe perse a causa di una mina antiuomo di cui il paese è disseminato, la donna minaccia di togliersi la vita durante l?eclisse ormai imminente. Quando inizia il film Nafas, partita dal Canada, dove ormai vive, per salvarla, ha ormai perso parecchio tempo nel vano tentativo di entrare in Afghanistan. Ci prova con la Croce rossa, ma mancano ormai solo tre giorni all?eclisse e dunque alla morte della sorella. Intanto registra una lettera vocale su un piccolo registratore che porta sempre con sé: se morirà durante il suo viaggio a Kandahar (la località dove i Talebani hanno fissato il loro quartier generale e che proprio per questo è diventata tristemente nota in queste settimane) forse quella voce rimarrà come testimonianza. Il viaggio è costellato di incontri che confermano il ricordo di un paese violento contro le donne sepolte sotto la burqa, il pesante mantello con una grata all?altezza degli occhi. Un paese dove alla scuola dei Talebani si formano i futuri quadri («il kalashnikov svolge il suo lavoro automaticamente e ripulisce il mondo dagli infedeli», recita un bambino) e dove un malsano senso dell?onore maschile cozza contro la dignità femminile. In una delle scene più grottesche, un medico visita le donne senza poter rivolgere domande dirette (usa dei bambini ?innocenti? come tramiti) e senza poterle guardare: solo un piccolo foro si apre alla visione impura di un occhio, della bocca. Un Paese povero, stremato dalle continue guerre e violenze, in cui le gambe e le mani artificiali diventano importanti come il pane. Le mine antiuomo riducono senza arti uomini, donne e bambini che fin da piccoli, anche nel vicino Iran, vengono addestrati a tenersi alla larga da oggetti sospetti. E così c?è chi aspetta anche per un anno un paio di gambe finte dai volontari delle organizzazioni umanitarie (il pensiero corre a Emergency), gambe che ogni tanto piovono dal cielo, paracadutate da elicotteri: nella scena più poetica del film, un folto gruppo di zoppi corre con le stampelle verso le gambe cadute come manna dal cielo, componendo nelle immagini di Makhmalbaf una specie di balletto ritmato. Una scena surreale e dolente, in un film senza troppe speranze, ma in cui un personaggio in cerca di Dio , un americano di colore capitato chissà come in quell?inferno, afferma: «Ho capito che per cercarlo dovevo alleviare le sofferenze della gente». Nafas, il cui nome significa respiro, paragona questo Paese senza televisione, cinema, in cui anche i quadri sono vietati e che il regista definisce «vaccinato contro la civiltà moderna», con la libertà che ha scoperto possibile altrove. Com?è stato detto, Viaggio a Kandahar è un grido di aiuto, per le donne e per tutti i sofferenti. Chi lo ascolterà?


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