Politica

Il giovane Letta ora dica qualcosa di “social”

Il giorno dopo il varo del "decreto del fare" il nostro Crippa firma il ritratto del premier: «Dice che il suo è il linguaggio sovversivo della verità. Sarebbe bello sentirlo parlare con la stessa sovversiva verità anche del sociale, che lui conosce, e di cui ha una visione meno ingessata degli altri». Magari sul 5 per mille scippato...

di Maurizio Crippa

Un po’ Forever young, un po’ Vecchio frac. Tanto per citare due canzoni che senz’altro conosce bene. Dorian Gray è un maledetto imbroglio, forse il vero segreto per non invecchiare mai è non essere mai stati davvero troppo giovani. In fondo è stato il segreto della longevità politica di Giulio Andreotti. Chissà se Enrico Letta, il giovane premier, saprà fare altrettanto. Essere giovani, avere il potere e riuscire a combinare qualcosa: in questo Paese per vecchi non è mai stato uno scherzo.

Enrico Letta, in questo, un vantaggio ce l’ha: non ci ha mai giocato troppo, con le carte dell’anagrafe. Di sicuro quell’aria da primo della classe, ma non stronzo, uno che i compiti te li passava, che da sempre si porta appiccicata addosso può essere un aiuto. Del resto il suo maggiore rivale, in prospettiva, si chiama Matteo Renzi: uno che man mano che il tempo passa vedrà svanire come la polverina magica di Peter Pan l’effetto rottamante della novità e della gioventù. Rischierà di essere costretto a recitare il giovane tutta la vita, “Renzie-Fonzie”, come lo chiama Grillo che in politica è un disastro, ma la verve comica ce l’ha ancora fresca. Renzi ha i calzoni corti, gioca alla Partita del cuore, è pop. Invece Enrico Letta porta la grisaglia da quando studiava alle elementari a Strasburgo, da quando era già il vecchio saggio dei giovani democristiani (e c’era già Alfano, c’era Franceschini). Letta è un uomo in grigio, passabilmente grigio. Le metafore  del calcio, a ben guardare, sono l’unica concessione alla cultura popolare e al suo trasandato linguaggio: la squadra in ritiro, fare spogliatoio e portare presto a casa il risultato. Per il resto, la sua migliore caratteristica è saper giocare con naturalezza un passo indietro. Non è poco, in questa Italia di debuttanti allo sbaraglio. Svolgere un compito, non essere il leader; governare, non debordare. Democristianeria, si dice. E in effetti qualcosa ce l’ha di uno stile da Prima Repubblica, senza offesa e nel senso buono del termine. Il governo di larghe intese che guida, più che l’affermazione tracotante di una linea politica, è un caso di serendipity, la miglior risposta a una domanda impossibile: chi mai poteva governarlo, un casino così? Ed è arrivato lui, vicesegretario del Pd, a guidare un esecutivo senza praticamente ex comunisti, nel segno della responsabilità e della pacificazione nazionale. Della ricostruzione, speriamo.

Nascondere la palla. Ecco, per stare alle sue metafore calcistiche, Enrico Letta è uno bravo a nascondere la palla. Cioè impedire per prima cosa agli altri di interrompere il gioco. E poi, senza forzare la mano, far scivolare l’azione cercando un paio di gol. Non è facile, quando là fuori tutti ti gridano addosso, ti dicono, anche i tuoi, che è meglio morire che vivacchiare.
Il problema è se tutta questa abilità un giorno gli sarà utile. A lui e  all’Italia. Il rischio sono le “lunghe attese” che vanificano le larghe intese. Finora in questo strano esecutivo figlio di una strana maggioranza ha prevalso l’effetto annuncio. Siamo usciti dal fuorigioco europeo, sì, ma quello era il gioco di Monti. L’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti è un annuncio tweettato prima ancora di aver finito la riunione coi ministri, chissà se arriverà davvero. E poi? Servono i soldi alle imprese (e magari anche alle famiglie). Serve di far la voce grossa in Europa, che la Merkel smolli la borsa. Il “dossier lavoro” è ancora una “road map” tutta da tracciare. La ripresa una chimera lontana. “La crisi, purtroppo, ha una durata drammatica”, ha detto ai terremotati d’Emilia. E’ il suo “linguaggio sovversivo della verità”. Sarebbe bello sentirlo parlare con la stessa sovversiva verità anche del sociale e dell’impresa sociale, o del 5 per mille scippato di anno in anno, cose che lui conosce, e ne ha una visione meno ingessata degli altri. Forse.

Ma poi, a fare la differenza tra un inconcludente leader della Seconda Repubblica e un giovane saggio che sembra uscito fresco dalla Prima (il suo Andreatta, il suo Prodi, quell’aria un po’ andreottiana che forse viene dai cromosomi dello zio) sarà la capacità di reggere al gioco duro. Alla testardaggine dei fatti. Decidere se chiudere l’Ilva o no, piegarsi alla logica dei pm e della salute o tirare dritto, ventimila posti di lavoro non si toccano, anche se sono sporchi brutti e cattivi. Scelte impopolari, comunque le guardi. E che farsene dei soldi della Cassa depositi e prestiti. E fare le nomine che pesano, quelle dei boiardi di Stato, senza nascondersi. Fare le riforme, o  cedere a una leggina che piaccia agli urlatori, di entrambe le parti, del suo strano governo. E il lavoro dei giovani, e il posto fisso dei sindacati. E decidere, alla fine, se ricomporre e scomporre il tavolo della politica. Se con gli altri democristiani si trova meglio che con molti dei suoi. Scelte impopolari, comunque le guardi.

Lui dice che “la politica è come il Subbuteo. Chi ha la mano pesante perde”. Ma poi la mano leggera la devi mettere nel pugno di ferro. Perché la politica è bella, ma non è mai “la bella politica”. I vecchi democristiani, quelli veri, e anche i vecchi comunisti, quelli veri, diventarono grandi così. Forever young è un imbroglio, anche a Obama sono spuntati i capelli grigi. Scelte impopolari, comunque le guardi.
 


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