Welfare

Reddito minimo garantito: il grande assente del welfare italiano

Tutto quello che c'è da sapere sul reddito di cittadinanza, con il confronto con altre realtà europee e uno sguardo alle best practices che potrebbero essere seguite anche in Italia

di Redazione

Vi proponiamo questo lungo e dettagliato articolo di Stefano Ronchi, pubblicato da  secondowelfare.it, sul Reddito minimo garantito, argomento su cui, nonostante negli ultimi mesi se ne sia molto parlato, spesso si posseggono nozioni vaghe e confuse. Con questo contributo speriamo di chiarire diverse questioni legate al suo utilizzo, attuando un confronto con altre realtà europee e segnalando le best practices che potrebbero essere seguite anche in Italia.

Il dibattito in corso in Italia
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Da mesi sentiamo infatti partiti, movimenti e sindacati invocare un “reddito di cittadinanza” senza andare oltre questa generica e accattivante etichetta utilizzata per di più in modo non del tutto proprio. La menzione va in primo luogo al reddito di cittadinanza inserito fra i punti programmatici dal Movimento 5 Stelle, genericamente inteso come sostegno economico minimo erogato dallo Stato ai cittadini per garantire un'esistenza libera e dignitosa. Lo stesso Mauro Gallegati, uno degli economisti di riferimento del M5S, ha precisato nel corso di un'intervista alla rivista Vita (Vita, aprile 2013, p. 47) che la proposta riguarda non tanto “un reddito di cittadinanza, di cui si beneficia per il semplice fatto di essere cittadini dello Stato”, ma “quel reddito garantito che viene dato ai soli disoccupati”. Il corretto inquadramento concettuale non è quindi questione di poco conto, dato che si passa da una misura di tipo universalistico a uno schema di assistenza sociale specificamente rivolto a una rosa di destinatari in stato di bisogno, con tutto quel che ne deriva sul versante della sostenibilità economica. Un fraintendimento di tale consistenza non fa che dare buoni argomenti a chi osteggia le proposte per l'inserimento di un reddito minimo in Italia perchè difficilmente finanziabile e quindi irrealizzabile utopia.

L'altra frequente argomentazione mossa contro un “reddito di cittadinanza” così genericamente enunciato riguarda il rischio di generare un largo bacino di beneficiari passivi senza possibilità (né interesse) ad uscire dalla cosiddetta trappola del welfare, quasi come se si volesse garantire non tanto il diritto al reinserimento sociale, quanto quello “a non lavorare” o incentivare implicitamente il lavoro sommerso. Proprio su questo punto caldo si è recentemente innestata una interessante proposta di Pietro Ferrari-Bravo – direttore generale della Fondazione per il Sud – che dalle pagine di Vita ha lanciato un vivace dibattito sul “reddito di cittadinanza attiva”, ovvero “un reddito che viene assegnato a persone che offrono il proprio contributo attivo per il bene della collettività” attraverso attività di vario tipo nel campo dei servizi alla persona, magari mediante il coinvolgimento del Terzo Settore (si rimanda agli articoli Caro Beppe, ok sul reddito di cittadinanza ma che sia attivo e Reddito di cittadinanza. Attiva), in modo da evitare il dilagare di fenomeni assistenzialistici e da generare allo stesso tempo potenziali esternalità positive sia in termini economici che di coesione sociale.

Reddito di cittadinanza e Reddito minimo garantito: un chiarimento concettuale
Dato il grande interesse per le politiche di protezione del reddito minimo acceso dal confronto politico pre-elettorale e tuttora tenuto vivo da una estesissima quanto variegata advocacy coalition, è oggi più che mai necessario fare chiarezza sui due concetti di reddito di cittadinanza e reddito minimo garantito. Tito Boeri e Roberto Perotti hanno già efficacemente illustrato su lavoce.info la distinzione che qui riprendo in modo più approfondito. Gli addetti ai lavori – politologi, economisti e sociologi – si trovano ormai in accordo sull'utilizzo delle seguenti definizioni, essenziale punto di partenza concettuale da cui può trarre sviluppo un dibattito politico adeguato all'importanza e alla complessità dei temi implicati.

Con reddito di cittadinanza – termine utilizzato in modo iper-estensivo dal M5S e da altri attori della sfera pubblica italiana – si intende ciò che nella letteratura anglosassone viene indicato come “basic income”. Rifacendosi direttamente alla definizione adottata dal Basic Income Earth Network – BIEN, gruppo promotore a livello europeo ed internazionale, il basic income è un trasferimento monetario elargito da una comunità a tutti i suoi membri, su base individuale ed in modo (1) universale e (2) incondizionato. Universale perchè erogato a tutti, indipendentemente dalle condizioni economiche; incondizionato perchè versato senza che nulla sia richiesto in cambio: né la disponibilità ad accettare un lavoro, né l'obbligo di seguire percorsi di formazione e/o inserimento lavorativo. Per queste caratteristiche viene spesso indicato in letteratura anche come reddito “di base” o “universale”.

Gli esempi concreti di basic income attualmente in vigore si contano sulle dita di una mano. Come riportato dalla Global Basic Income Foundation, l'unico schema vigente che rispetta rigorosamente la definizione sopracitata è il Permanent Fund Dividend Program in Alaska, grazie a cui dal 1982 viene redistribuita a ogni cittadino residente da almeno un anno una quota del profitto ricavato dalle concessioni petrolifere, sotto la forma di vero e proprio dividendo. Altri schemi parziali sono presenti in vari paesi in via di sviluppo, dove si cercano nuove forme di contrasto alla povertà (assoluta) e alla deprivazione materiale: degne di nota, ad esempio, la legge promulgata da Luiz Inácio Lula da Silva in Brasile nel 2004 per l'introduzione progressiva di un reddito di base (il programma Bolsa Família) e una sperimentazione condotta in un piccolo paese della Namibia, che ha dato ottimi risultati su vari versanti quali l'eradicazione delle più gravi forme di povertà, la sconfitta della malnutrizione infantile e – al contrario di ciò che i più prospettavano – l'aumento dell'occupazione (si veda a riguardo un interessante intervento di Uhuru Dempers, coordinatore del Basic Income Grant Coalition Secretariat).

In Europa, a partire dagli anni Ottanta, l'idea del basic income ha trovato un sempre maggior numero di sostenitori, poi organizzatisi in rete nel già citato BIEN. Senza entrare nel merito di un dibattito in continua evoluzione e per molti aspetti controverso, basti dire che il basic income viene spesso invocato come soluzione emancipatrice per i cittadini-lavoratori dell'era post-fordista, condannati per motivi strutturali ad un crescente rischio di disoccupazione involontaria, o ad accettare lavori sotto-pagati, tipicamente nello scomposto universo del terziario. In quest'ottica il basic income dovrebbe garantire agli individui pari opportunità di partenza, alzando a una data soglia il salario di riserva di tutti in modo indiscriminato e ampliando così la reale possibilità di scelta fra investimento in capitale umano, partecipazione al mercato del lavoro o attività non remunerate. La sostenibilità economica di un siffatto sistema di trasferimenti universalistico rimane chiaramente l'aspetto più critico, anche se i sostenitori del basic income ricordano che, se è vero che l'universalismo caricherebbe il bilancio statale di un ingente peso, d'altra parte questo suo stesso aspetto permetterebbe di evitare tutti quanti i costi collegati a una prova dei mezzi non sempre efficace, ai controlli anti-elusivi e in generale all'onerosa amministrazione degli esistenti schemi di assistenza sociale.

In tempi recenti il BIEN è passato dalla speculazione teorica al piano dell'azione, di fatto dando vita a una mobilitazione transnazionale che fa pressione sulle istituzioni portando avanti proposte concrete di basic income a livello comunitario. L'intervento di Philippe Van Parijs sull'Euro dividendo alla quinta European Public Policy Conference, “Breaking the Cycle: Rethinking Poverty in the Developed World” (si veda il contributo di Chiara Lodi Rizzini “Rethinking poverty in the developed world: l'Euro dividendo”), testimonia l'avanzamento del dibattito lanciato dal network, come d'altra parte anche la European Citizen's Initiative per la proposta di un “unconditional basic income” per i paesi membri accolta il 14 gennaio scorso dalla Commissione europea.

Passando al reddito minimo garantito (Rmg), questi si distingue dal basic income per via di due tratti caratterizzanti: (1) viene garantito in maniera selettiva previo superamento di una prova dei mezzi (means-test) da parte da di chi lo richiede, che deve avere un reddito al di sotto di una data soglia; (2) è tipicamente limitato nel tempo e condizionato alla disponibilità di accettare un'offerta di lavoro o alla partecipazione in programmi di formazione e/o job counselling specificamente finalizzati al reinserimento nel mercato del lavoro. Il reddito minimo garantito viene tipicamente pagato ai nuclei familiari nella forma di somma di denaro differenziale, che va a colmare il gap fra il reddito effettivo dei beneficiari e la soglia di riferimento fissata. Questa varia a seconda dell'estensione del numero di familiari e di altri eventuali fattori che il legislatore può decidere di includere nella scala d'equivalenza adoperata per il calcolo.

All'interno dell'architettura del welfare state, gli schemi di Rmg cadono dunque nella sfera dell'assistenza sociale. Seppur con ampi margini di variabilità, tutti gli Stati membri dell'UE (meno le due note eccezioni, Italia e Grecia) si sono dotati di schemi di garanzia del reddito minimo, tessendo così le trame essenziali di quelli che gli analisti di politiche pubbliche chiamano “(last) social safety nets”. Il termine – mutuato dall'inglese “safety net” (la rete di salvataggio degli acrobati, per intenderci) – suggerisce in modo pittoresco quanto efficace la funzione svolta da questi schemi assistenziali. Il reddito minimo garantito è infatti pensato per agire come meccanismo di protezione sociale di ultima istanza, che viene attivato una volta esauriti tutti i restanti ammortizzatori sociali o una volta accertata la loro inapplicabilità al singolo caso. Al contrario dei tradizionali schemi di assicurazione sociale (ad esempio, per l'Italia, la Cig ordinaria e l'Aspi introdotta dalla recente riforma Fornero in sostituzione dell'indennità di disoccupazione) è finanziato dalla tassazione generale e slegato da eventuali contributi precedentemente versati dai beneficiari. Non si tratta di una misura di tipo categoriale/occupazionale, ma mira ad estendere la copertura a tutti i cittadini aventi diritto perchè in situazione di indigenza, a prescindere dai loro trascorsi lavorativi e contributivi.

Queste caratteristiche portano a parlare di reddito minimo garantito come schema universale e selettivo al tempo stesso. Lo schema riportato nella figura 1, ripreso dalla recente pubblicazione a cura del Basic Income Network Italia “Reddito minimo garantito: un progetto necessario e possibile” illustra il ruolo del Rmg come “last safety net”, o se vogliamo come ultimo ingranaggio a venire attivato nel ciclo di protezione del reddito dei disoccupati. In tutti i welfare state europei maturi, alla perdita del lavoro segue un percorso a due step: in prima istanza entra in gioco il sussidio di disoccupazione, di natura previdenziale e come tale rivolto ai lavoratori cosiddetti “garantiti” che rispettano i requisiti contributivi richiesti; una volta esauriti i termini del sussidio, i beneficiari ancora in stato di bisogno possono accedere agli schemi di reddito minimo. Il Rmg assume in realtà una duplice valenza: secondo step di protezione sociale per i lavoratori garantiti (dopo il sussidio) e passaggio diretto per i lavoratori atipici non coperti da assicurazione sociale, come anche per studenti, inoccupati, giovani alla ricerca del primo impiego purchè rispettino i requisiti fissati dalla prova dei mezzi.

Italia: un ritardo imperdonabile
È proprio qui che balza all'occhio il forte deficit del sistema di protezione sociale italiano, come noto caratterizzato da una marcata ipotrofia dell'assistenza sociale. Venendo a mancare il “last safety net”, disoccupati di lungo periodo, lavoratori precari e in generale tutta la rosa di individui vulnerabili ai cosiddetti “nuovi rischi sociali” tipici dell'era postindustriale si vedono condannati a una caduta libera, abbandonati dallo Stato e in balia di un mercato che spesso non può garantire un reddito dignitoso ai meno istruiti, ai lavoratori con competenze obsolete, ai giovani genitori impossibilitati nel conciliare attività di cura e lavoro nel mercato e a tutta quella miriade di individui invisibili agli occhi di un sistema di protezione sociale non più al passo coi tempi. D'altra parte, in Italia il ruolo di ammortizzatore sociale di ultima istanza è sempre stato storicamente lasciato alla famiglia – imperniata sul capo-famiglia maschio che “si fa carico” degli altri componenti – e ciò ha distorto il welfare mix contribuendo ad alimentare circoli viziosi di policy feedback in tempi di tagli alla spesa pubblica. Ma saranno ancora in grado i nati negli anni Ottanta e Novanta di supplire alle carenze del welfare e di dare un supporto economico ai propri figli?

Proprio su questo mismatch fra domanda e offerta di protezione sociale fa luce il recentissimo rapporto nazionale stilato da Ilaria Madama, Marcello Natili e Matteo Jessoula del Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell'Università degli Studi di Milano nell'ambito del progetto europeo COPE (Combating Poverty in Europe). In esso si sottolinea come i nuovi rischi sociali generati dagli epocali cambiamenti nel contesto socio-economico internazionale abbiano esacerbato i principali limiti (pre-)esistenti nel sistema di welfare italiano. In particolare, l'interazione fra vecchi e nuovi bisogni sociali da una parte, e le trasformazioni nel mondo del lavoro e nella suddivisione dei ruoli familiari dall'altra hanno contribuito all'aumento di fenomeni di povertà ed esclusione sociale, palesando una volta per tutte la grande assenza nell'impalcatura delle nostre politiche sociali: quella, appunto, di uno schema di salvataggio di ultima istanza come il Rmg.

Una proposta nuova? Spinte dall'UE, sperimetazioni e proposte mosse
Alla luce delle carenze appena sottolineate, non stupisce affatto che il dibattito sulla necessità dell'adozione di uno schema di reddito minimo abbia fatto irruzione con tale rinnovato vigore nell'arena politica italiana. Stupisce al contrario il ritardo con cui ciò sia avvenuto.

Le prime spinte verso l'inserimento di forme di tutela del reddito minimo da parte di tutti i Paesi europei vengono dal livello sovra-nazionale, quello comunitario, e si rivolgono in particolare ai ritardatari del Sud-Europa. Risale al 1992 la Raccomandazione del Consiglio europeo in merito ai “criteri comuni in materia di risorse e prestazioni sufficienti nei sistemi di protezione sociale” (92/441/CEE), che caldeggiava l'adozione di schemi di reddito minimo o “equivalenti funzionali” nell'auspicio di una graduale armonizzazione dei minimi sociali in tutti gli Stati membri, da favorire mediante un “sistematico scambio di informazioni ed esperienze e una continua valutazione degli schemi nazionali adottati”. La raccomandazione si inseriva nell'allora nascente contesto della strategia europea di lotta alla povertà e all'esclusione sociale, e rifletteva una ratio implicita nella volontà di porre le basi per un certo grado di convergenza degli schemi di protezione sociale dei paesi membri. Nello stesso anno, infatti, Maastricht aveva aperto la via ad una definitiva integrazione in una Unione economica e monetaria, e quindi anche ad una più agevole circolazione di capitale umano: una troppo accentuata disparità nei sistemi di assistenza sociale fra i paesi membri sembrava cozzare con questi intenti primari, facendo suonare il campanello d'allarme sul rischio di un possibile dilagare di fenomeni di dumping sociale.

Nel corso degli anni Novanta in effetti una diffusa reazione da parte dei paesi del Sud-Europa arrivò (degno di nota soprattutto lo sforzo del Portogallo, che dal 1997 ha adottato uno schema di reddito minimo integrato a livello nazionale), Italia inclusa. Nel febbraio del 1997, la Commissione Onofri – Commissione per l'analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale – aprì la strada ad un periodo di tentativi di innovazione delle politiche sociali italiane. Fra il 1998 e i primi anni del 2000 ebbe luogo una serie di sperimentazioni del così definito “Reddito minimo di inserimento” (Rmi) in 39 Comuni italiani. Antonio Schizzerotto e Ugo Trivellato su lavoce.info sintetizzano i tratti salienti della breve e non fortunata esperienza. Due i fattori che portarono ad una brusca interruzione della sperimentazione prima della prospettata estensione all'intero territorio nazionale: gli effetti di azzeramento prodotti dall'alternanza politica (nel 2004 il centro-destra sostituì il Rmi con un ancor più residuale “Reddito di ultima istanza”, mai adeguatamente finanziato e quindi definitivamente accantonato), e la destabilizzazione portata dalla riforma del Titolo V della Costituzione (legge 3/2001). Il parziale riassetto in chiave federalista pone l'assistenza sociale nell'ambito delle materie di competenza legislativa regionale, ferma restando la competenza dello Stato per la “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”. I programmi provvisori avviati in alcune Regioni (si veda l'articolo di Sandro Gobetti per un'esauriente commento ex-post sull'esperienza del Rmg nel Lazio) hanno regolarmente dovuto fare i conti con due insormontabili ostacoli. In primo luogo l'inadeguatezza dei fondi sbloccati dallo Stato per le politiche sociali, frutto di una devoluzione in tempi di “austerità permanente” che cela in realtà un semplice spostamento dei dilemmi legati a vincoli di bilancio sempre più stringenti dal centro alle periferie, limitando drasticamente l'effettivo potenziale innovatore di Regioni ed enti locali. In secondo luogo l'enorme deficit di efficienza da parte delle amministrazioni locali, che in molti casi si dimostrano non all'altezza di svolgere i compiti a loro assegnati con riguardo agli schemi di reddito minimo, siano questi il means-test e l'assegnazione delle risorse, o – ancor di più – l'essenziale erogazione di servizi di re-inserimento sociale e lavorativo, senza di cui i provvedimenti citati rimangono quantomeno incompleti. Una nota di merito va invece al caso della Provincia autonoma di Trento, che ha affiancato al provvedimento adottato un'attenta analisi di monitoraggio svolta in parallelo dall’Istituto per la ricerca valutativa sulle politiche pubbliche (Irvapp) (si veda ancora Reddito minimo: le condizioni per farlo), fattore necessario per dare stimoli e indicazioni concrete al processo di policy su scala nazionale.

D'altra parte il Rmg non è una completa novità in Italia nemmeno sul piano delle proposte di legge nazionali. Il già citato libro del BIN Italia “Reddito minimo garantito: un progetto necessario e possibile” riporta in un capitolo dedicato almeno cinque proposte ad opera di esperti accademici e organizzazioni come le ACLI, la CGIL e il BIN stesso, tutte quante corredate di indicazioni sui costi stimati delle misure e sui possibili metodi di finanziamento. Minimo comune denominatore, la razionalizzazione di tutte le frammentate forme di sussidio contro la disoccupazione e di trasferimenti monetari di assistenza sociale ad oggi esistenti in Italia, il che già di per sé implicherebbe un netto miglioramento in termini di efficacia e di razionalizzazione della spesa sociale.

La più recente e significativa conquista da parte della eterogenea platea di sostenitori del Rmg è senza dubbio la proposta di legge di iniziativa popolare popolare promossa da una vasta rete di associazioni e movimenti, per cui rimando direttamente al sito del comitato promotore dove è possibile consultarne il testo. Lo scorso 15 aprile sono state depositate a Montecitorio le 50.000 firme necessarie per l'avanzamento della proposta.

Il Rmg negli altri Stati membri dell'UE
Una panoramica sulla situazione europea chiarifica ulteriormente che cosa si intende per Rmg nelle esperienze concrete di altri paesi, nei quali l'accesso a un minimo vitale garantito dallo Stato ai cittadini è ormai da tempo un diritto sociale assodato.

Un monitoraggio della Commissione europea e curato da Hugh Frazer e Eric Marlier sugli schemi di reddito minimo nell'UE (datato 2009) sottolinea come, sebbene siano rari i casi in cui il Rmg riduce consistentemente i livelli aggregati di povertà, esso gioca in ogni caso un ruolo chiave nel ridurre l'intensità della povertà, ovvero nell'alleviare le condizioni di insicurezza per chi versa in uno stato di bisogno particolarmente grave. In effetti, la rilevanza degli schemi di reddito minimo nella lotta alla povertà e all'esclusione sociale è stata riconosciuta dalle istituzioni comunitarie, e recentemente ribadita nella Risoluzione del Parlamento europeo del 21 ottobre 2010, che si spinge oltre suggerendo limiti da rispettare per l'adeguatezza degli schemi di reddito minimo, e facendo così proprie le indicazioni mosse in questo senso dallo European Anti-Poverty Network. Tale livello minimo è individuato nella soglia di povertà adottata da Eurostat: il 60% del reddito mediano equivalente in un dato paese membro.

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Qualche esempio di buone pratiche
Se è vero che l'Italia risulta grande ritardataria nell'istituzione di una forma di Rmg, essa potrebbe tuttavia fare tesoro dei punti di forza e dei limiti emersi dalle già esistenti esperienze europee per dare vita a un epocale esperimento di innovazione sociale. Osservare più da vicino il concreto funzionamento delle misure di protezione del reddito minimo in altri paesi membri può senza dubbio dare spunti interessanti ai policy-makers quanto ai gruppi di sostegno che si sono mobilitati negli ultimi mesi. Gli studi di caso sono infatti la via primaria per comprendere come il Rmg viene posto in atto e interagisce con altri istituti di welfare e con le amministrazioni responsabili dell'erogazione dei trasferimenti monetari e delle politiche attive per il lavoro ad essi vincolate.

Gettiamo quindi uno sguardo a qualche esempio di schema di reddito minimo, focalizzandoci su quelle che sono riconosciute come best practices all'interno dell'UE.

Olanda. La Algemene Bijstand copre varie misure di reddito minimo ed è finalizzata a sostenere i residenti che non riescono a soddisfare i propri bisogni o non hanno altre entrate economiche. Vi è un minimo a livello nazionale, indicizzato al salario minimo e aumentabile entro certi limiti dalle singole municipalità. Interventi ad hoc sono rivolti a vari gruppi sociali vunerabili, quali i giovani, gli indigenti, i disoccupati di lungo periodo. Si tratta di un diritto individuale e viene riconosciuto anche ai nuclei familiari di conviventi, con scale d'equivalenza dedicate. La durata è illimitata, a patto che i beneficiari dimostrino di attivarsi per la ricerca di un lavoro; sono previsti corsi di formazione e l'eventuale partecipazione a lavori di utilità pubblica. Parte del reddito da lavoro (part-time) non è conteggiata nel reddito disponibile per incentivare l'occupazione. In alcuni casi è cumulabile con sussidi per l'affitto. Vi è inoltre una misura specifica per coloro che sono artisti, che ha come finalità quella di garantire una base economica per l'uso del tempo destinato alla creazione artistica.

Danimarca. Il reddito minimo è considerato sia come misura di assistenza sociale (Kontanthjaelp) che come contributo per “l'avviamento di una vita autonoma” (Starthjaelp), erogato su base individuale ai residenti. Il calcolo dell'importo varia a seconda delle condizioni familiari o dell'età. Vi è un minimo nazionale indicizzato al sussidio di disoccupazione. La durata è illimitata, fino al miglioramento della condizione individuale. Il sussidio è vincolato alla disponibilità nel partecipare a corsi di formazione o altri programmi di incentivazione all'occupazione. I destinatari possono accedere anche ad altre agevolazioni accessorie per le cure mediche, sostegno all'affitto, istruzione per i figli, ecc.

Belgio. Il Revenu d'intégration/Leefloon ha sostituito il precedente Minimax (Minimo vitale) nel 2002. Il suo scopo è quello di garantire coloro che non hanno altre entrate e viene erogato a singoli individui o conviventi (purchè in possesso della cittadinanza), ricalcolato a seconda dell'ampiezza del nucleo familiare in riferimento a una soglia nazionale fissata in modo discrezionale della legge. Anche in questo caso la durata è illimitata e occorre dimostrarsi attivi nella ricerca di un impiego; i Centri Pubblici per l'Assistenza Sociale affiancano i beneficiari e si occupano della formazione e dell'inserimento nel mercato del lavoro di concerto con altri attori, anche privati. E' possibile un limitato cumulo con altre risorse e benefit; integrazioni in beni e servizi completano la misura con sostegni per l'alloggio, i trasporti, le attività culturali, ecc.

Germania. Lo schema di reddito minimo si compone del Hilfe zum Lebensunterhalt (aiuto per il sostentamento), di un equivalente del nostro Assegno Sociale per i pensionati in condizioni di bisogno, e di un intervento a favore dei disoccupati sottoposto alla prova dei mezzi. Per quest'ultimo non è richiesta la cittadinanza tedesca, salvo particolari eccezioni. E' un diritto soggettivo destinato anche a diversi membri all'interno della stessa unità familiare. La determinazione dei livelli della soglia dipende dai Lander, ma dal 2007 è previsto un minimo nazionale. La durata è illimitata (con accertamenti della condizione ogni 6 mesi) a patto che i beneficiari in grado di lavorare seguano programmi ad hoc presso i Centri per l'Impiego e accettino offerte di lavoro “congrue”. Ulteriori misure di sostegno riguardano l'affitto, il riscaldamento, il mobilio, ecc.

Francia. In aggiunta a due diverse forme di intervento rivolte ai disoccupati, nel 1988 fu introdotto lo schema di assistenza Revenu Minimum d'Insertion, sostituito nel 2009 dal Revenu de Solidarité Active. Il reddito di solidarietà attiva ha lo scopo di garantire un reddito minimo a coloro che risiedono legalmente in Francia e che non hanno altre entrate economiche sufficienti. Il diritto è individuale, ma tiene conto della situazione e del patrimonio familiare per il calcolo degli importi. Il RSA è erogato come prestazione differenziale e integrativa dei redditi da lavoro del beneficiario fino a una data soglia di reddito garantito, in modo da allontanare il pericolo della trappola di disoccupazione. Come insito nello stesso nome della misura, per i disoccupati è richiesto l'obbligo di cercare un impiego o di avviare una propria attività professionale.

Per concludere: un'investimento sociale per uscire dalla crisi
In questi anni di piena crisi economica abbiamo assistito a un'esplosione della disoccupazione a livello europeo. Un numero crescente di individui non più in grado di reperire un reddito nel mercato si è di conseguenza affidato agli ammortizzatori sociali (in questo senso gli ultimi dati INPS e il rifinanziamento d'urgenza della Cig in deroga parlano chiaro). Nei paesi dotati di schemi di reddito minimo, il numero di beneficiari è salito e i tiranti di queste “reti di salvataggio sociale” di ultima istanza hanno retto. Si stima che nei prossimi anni, quando prevedibilmente si esauriranno i termini per i sussidi di disoccupazione a chi ha perso il lavoro in tempi recenti, gli schemi di assistenza sociale giocheranno un ruolo ancor più fondamentale.

In Italia invece, disoccupati di lungo periodo e in generale tutti gli individui non coperti da forme di assicurazione sociale sono lasciati a sé stessi, destinati alla povertà, già stimata all'11,1% (pari a 8,2 milioni di individui in condizioni di povertà relativa) dall'ISTAT nel 2011.

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