Non profit

«Fundraiser, sognate. Ma coi piedi per terra»

A Castrocaro al via i lavori del sesto Festival del Fundraising. I consigli di Valerio Melandri, direttore del Master, a chi vuole intraprendere questa professione

di Mattia Schieppati

Come ogni anno (siamo alla sesta edizione), le giornate del Festival del Fundraising – che apre i battenti martedì 14, con il via delle prime sessioni di Masterclass – sono l’occasione per fare il punto sulla professione del fundraiser, anche grazie agli stimoli che derivano dal confronto con esperti e professionisti provenienti da mezzo mondo e che anche quest'anno sbarcano a Castrocaro, sede ormai storica del Festival.
Un “punto” che proviamo a fare con Valerio Melandri, direttore del Master in Fundraising per il non profit e gli enti pubblici dell’Università di Bologna.

VITA. Chi sono, oggi, i fundraiser italiani?
MELANDRI. La cosa che può sembrare incredibile, ma che è tremendamente seria, è che a oggi nessuno lo può dire in maniera certa e scientifica. È per questo che stiamo lavorando appunto al primo censimento completo di tutto coloro che effettivamente si occupano di fundraising nel non profit, che nel loro mansionario hanno il termine “fundraiser”  e fanno raccolta fondi specificatamente da privati o da fondazioni, escludendo quindi le figure che raccolgono risorse da bandi pubblici. È importante affermare un criterio scientifico di misurazione della professione, tracciare dei confini, per questo vogliamo fare un censimento, non un’indagine a campione. Siamo già a arrivati a 935 persone, professionisti, che in Italia rispondono a queste caratteristiche, e siamo solo agli inizi. Crediamo che alla fine saranno circa 5mila.

Tante o poche? È una professione in cui c’è spazio?
Lo spazio c’è, ma il freno allo sviluppo è dato da una concezione ancora sbagliata di governance che condiziona il non profit. Dove il fundraiser è ancora considerato un costo, non una risorsa, e i fundraiser all’interno delle organizzazioni non hanno libertà di spesa per svolgere al meglio il proprio lavoro, che vuol dire possibilità di investire per migliorare i risultati della raccolta fondi. Sviluppando sistemi per l’analisi dei dati, per esempio, ma vorrebbe dire che una non profit dovrebbe investire, ripeto investire, su questo dai 4 ai 7mila euro… e pochi hanno il coraggio di farlo.

Perché questo freno?
Perché non si è mai fatta chiarezza sulla differenza tra non profit distributivo, quello delle fondazioni bancarie per esempio, che hanno costi di struttura alti pur dovendo solo distribuire fondi, e il non profit produttivo, all’interno del quale la struttura, il fundraiser, deve andare a cercarsi i soldi, ma deve farlo all’interno di un primetro di costi di struttura che devono essere compressi al minimo, perché una non profit che dichiara alti costi di struttura è considerata “cattiva”. È una mentalità completamente sbagliata, che ormai mostra la corda, e per questo bisogna tornare a fare un discorso culturale.

Un discorso culturale che parta da chi ha il compito arduo e concreto di trovare risorse?
Sì. Perché per motivi storici, culturali, ha finito per prevalere anche nella cattolica Italia quella mentalità protestante-capitalistica che ha creato una frattura tra interesse personale e bene comune. Per cui o uno persegue il proprio interesse personale e in parte “dona” qualcosa per il bene comune, oppure mette da parte l’interesse personale e si dona totalmente al bene comune. È sbagliato. Il fundraiser ha il compito primario di ricomporre questa frattura, di riaffermare l’esistenza di una terza via: nel fare il mio interesse personale, faccio anche il bene comune.

Chi sono i ragazzi che si avvicinano oggi a questa professione?
Sono felice di vedere che proprio tra i giovani non c’è più questa separazione che fino a qualche anno fa era discriminante, i sognatori da una parte, che vogliono cambiare il mondo rinunciando a se stessi, e allora scelgono di dedicarsi anima e corpo al non profit, e di fare i fundraiser, dall’altra parte gli squali-manager orientati al profitto, che sceglievano di andare a lavorare nella grande banca d’affari simbolo del profit. Oggi si trovano nel mondo profit tanti giovani con una sana attenzione al sociale, così come nel non profit ci sono ragazzi coi piedi ben piantati per terra, con skills, professionalità ed entusiasmo pari a quelle dei loro coetanei che hanno scelto il profit. Nei giovani che partecipano al Master – e che vengono al Festival – vedo questa energia e questa consapevolezza, che è un bel passo avanti anche per la professione. È un bellissimo segnale.


GUIDA PRATICA AL FESTIVAL
L'edizione 2013 del Festival del Fundraising si svolgerà dal 14 al 17 maggio presso il Grand Hotel Terme di Castrocaro. Il programma Classic approfondirà, attraverso lezioni e workshop, le esperienze di maggiore successo e le migliori tecniche di raccolta fondi (70 i relatori coinvolti, provenienti da tutto il mondo, oltre 80 i workshop previsti con case history sulla raccolta fondi), cui si aggiungono due sessioni plenarie su due temi di frontiera intitolate: Neuromarketing: il futuro del fundraising?; Leader! Chi guiderà il futuro del nonprofit?.
Sono previste poi 4 Masterclass dedicate ai settori emergenti del fundraising italiano: Emotional Fundraising (con in cattedra Francesco Ambrogetti e Dan Hill); Fundraising per la Cultura (con Giovanni Festa); Fundraising per l’Educazione (con Ben Morton); Fundraising per la Sanità (con Alberto Masacci).
Per le informazioni sulla partecipazione, i programmi, i profili dei relatori, i costi e le modalità di prenotazione consultare il sito: www.festivaldelfundraising.it

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