Mondo

Controlli di polizia su islamici: Frisullo scrive a Scajola

Il pacifista denuncia alcuni abusi compiuti in questi giorni su cittadini mediorientali in una lettera la ministro degli Interni

di Giampaolo Cerri

Dino Frisullo, il pacifista italiano che fu incarcerato in Turchia per essersi interessato alla causa curda, scrive al ministro degli Interni Scajola denunciando alcuni controlli di polizia cui sono soggetti in questi giorni alcuni profughi e cittadini di origine mediorientale o di religione islamica. Eccone il testo

“TEMPO DI GUERRA?

LETTERA APERTA AL MINISTRO SCAIOLA E AL PREFETTO E AL QUESTORE DI ROMA
Signor ministro, lei e il presidente del Consiglio in questi giorni hanno ripetutamente negato che l’Italia debba ritenersi in guerra con i musulmani o con coloro che hanno avuto la sfortuna di nascere in altri mondi. Dobbiamo supporre che gli apparati di sicurezza abbiano ricevuto disposizioni conseguenti.

Vorrei raccontarle la storia di Huseyn, profugo kurdo.

Ieri mattina, per la seconda volta in due giorni, è stato fermato da una pattuglia di polizia all’interno della stazione Termini a Roma. Era con il suo amico Yan, anche lui kurdo ma biondo e di pelle chiara tanto quanto Huseyn è scuro e crespo di barba e capelli. Una volta controllati i documenti, in regola per entrambi (anzi: Huseyn ha già ricevuto l’asilo politico che Yan attende ancora), gli agenti hanno trattenuto solo Huseyn. L’altro però è rimasto, per amicizia.

La prima domanda: siete musulmani? Alla risposta positiva, sono stati portati nel posto di polizia ferroviaria presso il primo binario e chiusi in una stanzetta per quattro-cinque ore per un “controllo di documenti”. Prima, gli sono state sequestrate le batterie dei telefonini (poi restituite) e le spillette del Pkk di Ocalan, non restituite affatto perché secondo l’agente erano “illegali”. Non basta: dalla Polfer sono stati trasferiti nell’Ufficio stranieri della questura, dove sono rimasti altre cinque ore senza mai mangiare nè bere, prima di essere infine rilasciati, a sera, e scaricati nella stessa stazione.

Mentre le scrivo, signor ministro, Huseyn sta molto male. Per un’intera giornata ha rivissuto, senza ragione, situazioni già viste. Nel suo paese, il Kurdistan turco, fu arrestato due volte. La prima si risvegliò dal coma in ospedale, con gli abiti insanguinati dalla tortura. La seconda volta fu torturato per 45 giorni di seguito. Fuggì in Germania, ne fu respinto in Turchia, è riuscito a espatriare una seconda volta e ad avere asilo in Italia. Dove non avrebbe mai creduto di ritrovare lo stesso arbitrio di polizia.

Un altro profugo kurdo, di nome Hamza, è molto contento: nel centro autogestito Ararat, a Roma, sta avviando in collaborazione con la Uisp due squadre di football e pallavolo, le prime “nazionali” del suo paese negato. C’è però un’ombra nel suo sorriso, da quando nella stessa stazione Termini una pattuglia l’ha fermato, gli ha chiesto della sua religione, gli ha controllato i documenti e infine l’ha obbligato, in pubblico, a sfilarsi la maglietta e rimettersela all’incontrario, nascondendo all’interno l’immagine stampata che richiama il suo paese e la sua lotta.

Potrei raccontarle altre storie.

Quella di H., mio amico palestinese, che a quindici anni aveva proiettato la rabbia infinita della sua infanzia a Sabra e Chatila in un atto di violenza, ha pagato duramente, ne ha tratto un libro, ora è un’altra persona e un libero cittadino in attesa dell’asilo politico. Fino a quando, in tempo di pre-guerra, è stato prelevato dal suo posto di lavoro da agenti in borghese inviati dal Viminale e tradotto a Ponte Galeria, da dove solo l’insistenza di alcuni avvocati è riuscita a impedire un’espulsione verso un Medio oriente in cui sarebbe messo a morte.

Oppure quella di Tassaduq Hossain, giovane commerciante pakistano che in vita sua non ha mai fatto politica, ma aveva il vezzo di portare la barba e vestire l’abito tradizionale nero anziché bianco. Nella scorsa estate, prima del dramma delle Twin Towers ma dopo i fatti di Genova, è stato prelevato a casa e rimpatriato, nonostante avesse un regolare permesso di soggiorno, con l’accusa improbabile e mai provata di “partecipazione a banda armata”.

Del resto è nota la vicenda dei cinque afghani presunti terroristi, poi risultati normali “clandestini”. Meno nota, perché forse se ne sono vergognati inquirenti e cronisti, è la circostanza che le cartine dei “possibili obiettivi” erano le mappe di Roma normalmente fornite dalla Caritas, con l’indicazione di San Pietro ed altro?

Signor ministro, che devo rispondere ai miei amici kurdi, pakistani, indiani, bengalesi o arabi che mi chiedono se dunque è vero che è diventata sospetta la loro religione, i loro abiti, i loro simboli, la loro pelle? Che dobbiamo rispondere, noi dell’associazionismo che ogni giorno deve delle risposte agli “stranieri”, a chi ci chiede se in tempo di guerra non sia meglio scivolare rasente i muri, non frequentare stazioni e metropolitane, insomma nascondersi? E dove mai potrebbero nascondersi?
Dino Frisullo
per le associazioni “Senzaconfine” e “Azad”

Roma, 5 ottobre 2001

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