Mondo

La voce di Quirico, «Noi giornalisti abbiamo fallito»

L’inviato della Stampa non dà notizie da 20 giorni. Qualche tempo fa aveva raccontato la sua idea di giornalismo in un’intervista che è tutta da rileggere

di Giuseppe Frangi

Domenico Quirico, inviato di punta della Stampa non dà notizie di sè da 20 giorni. Lo ha reso noto ieri il direttore del giornale Mario Calabresi. Quirico è partito dall'Italia il 5 aprile diretto in Libano, a Beirut, e da qui la mattina del 6 si è messo in viaggio per la Siria, rassicurando i colleghi italiani che lo avevano contattato per informarlo del rapimento di Ricucci, Colavolpe, Vignali e Dabbous che "il suo percorso sarebbe stato completamente diverso" e che li avrebbe richiamati "una volta passato il confine". Cosa che ha fatto nel pomeriggio, inviando un sms al responsabile Esteri de La Stampa. Dopodiché il giornalista ha ancora mandato un messaggio e sentito la moglie, Giulietta, lunedì 8 aprile e quindi il 9 aprile scritto a un collega che si trovava sulla strada per Homs. Poi il silenzio.

«La scelta di non dare notizia e non pubblicizzare la scomparsa è stata presa, in accordo con le autorità italiane, per evitare di attrarre l’attenzione su Domenico in una zona ad alto rischio di sequestri», ha scritto Calabresi.

Nel 2011 aveva vissuto un’altra esperienza di sequestro, in Tunisia, insiema da altri tre colleghi italiani. Ma chi è Domenico Quirico? Qual è la sua idea di giornalismo? Lo aveva raccontato pco tempo fa in una bella intervista rilasciata ad Alessandra Stoppa per il mensile Tracce.

Quirico aveva spiegato che in «Siria il nostro mestiere di inviati e giornalisti è davvero un fallimento». E poi proseguiva: «Quella siriana è una delle tragedie più terribili degli ultimi anni. Io l’ho attraversata in modo diretto: dal 2011 ci sono andato quattro volte, l’ultima di recente. E ho visto l’impotenza del nostro lavoro a trasformare i fatti in coscienza, anche collettiva. La Siria non è diventata un problema della società civile occidentale. Io credo che accada perché non si riesce più a creare compassione. Questo è il problema dei giornali, non il bilancio in rosso, la pubblicità… Ma l’incapacità a raccontare il dolore. Si va nei luoghi in cui l’uomo soffre, ma non si comunica nulla, ci si perde dietro ad altre cose».

Alla domanda cosa vuol dire per uno che fa il suo mestiere, cosa voglia dire comunicare, Quirico rispondeva così: «Vuolo dire condividere. Andare lì e condividere. E poter trasmettere quanto siano terribilmente vive le cose che vediamo. Il reportage, che è stata la parte essenziale e costitutiva della storia del giornalismo, oggi vive una nuova necessità. Bisogna essere all’interno del fatto, rischiando, senza avere un modo per scampare a ciò che accade. Poi, c’è tutto il disperato tentativo della scrittura di restituire in minima parte gli uomini che vedo, di dare a te che non sei lì, almeno per un’infinitesima parte, il senso di esserci, di vedere».

Quirico nell’intervista accennava anche ad una propria svolta personale, di fronte a questo continuo vedere il male in azione. «Questo modo di fare il mestiere mi ha messo di fronte all’eterno problema del male. No, in realtà il male non è un problema… È un mistero. E questo lavoro è calarsi nel mistero del male. gli avvenimenti che ho attraversato mi hanno costretto a pormi delle domande, a fare certi ragionamenti. Mi hanno cambiato. Rimettendomi davanti alla domanda che l’uomo si fa da sempre: Dio esiste o no? La presenza della grazia e del peccato per me è la risposta a questa domanda. Così nell’atto totalmente gratuito di quei due ragazzi, che hanno salvato me ed altre tre persone senza guadagnarci nulla, io ho visto la manifestazione della grazia. La prova dell’esistenza di Dio. Lì, così, in un giorno qualsiasi di un Paese africano, in una guerra tremenda, in un massacro senza luce, semplicemente, si è manifestata la grazia».

Da leggere, il celebre reportage di Quirico, che si era imbarcato in Tunisia con un gruppo di clandestini sulla rotta verso Lampedusa
 


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