Economia

Avete due soldi? Investite in pubblicità

Negli Usa si afferma una teoria che cambia i criteri dell'efficienza: tenere basse le spese per la comunicazione non è produttivo e non indica una buona gestione. Perché chi è più popolare raccoglie di più, e raggiunge meglio la mission. Sarà vero?

di Gabriella Meroni

Perché le associazioni non profit investono poco in pubblicità? Perché non hanno soldi, sarebbe la risposta più semplice e immediata. Ma in molti casi non è quella giusta, perché magari i soldi ci sono, ma si preferisce usarli per la "mission", ovvero per l'obiettivo per cui l'associazione è nata e – elemento da non trascurare – chiede fondi ai sostenitori. Inoltre mantenere bassa la percentuale delle spese extra-mission è universalmente considerato un indice positivo, di efficienza: se una non profit può dimostrare di utilizzare meno del 20% delle entrate per le spese di gestione, struttura, comunicazione ecc. è considerata un modello da seguire (secondo l'Istituto Italiano della donazione, i cittadini donatori ritengono “accettabile” un rapporto 70% – 30% tra oneri per la missione e altri oneri).

Tutto sbagliato. Quella di mantenere i costi di gestione e di comunicazione bassi è un'ossessione: bisognerebbe investire molto di più in pubblicità, diventare noti e popolari per far crescere le entrate e diventare, allora sì, veramente efficaci. La tesi arriva dagli Stati Uniti, e dopo essere stata sostenuta in un video diventato virale dall'ex pubblicitario e fundraiser Dan Pallotta (lo trovate qui) sta conquistando sempre più sostenitori. L'ultimo è un professore, Brian Mittendorf, docente presso il Fisher College of Business della Ohio State University, che sul Non Profit Quarterly analizza e smonta il criterio che utilizza le basse spese accessorie come indicatore di efficienza delle charity.

"Tenere bassi i costi pubblicitari è un'ossessione", scrive il professore, "motivata dal fatto che i donatori sarebbero scandalizzati che un'associazione spendesse troppo a questo fine. Ma a parte che dubito che i sostenitori leggano regolarmente i bilanci delle organizzazioni a cui donano, io contesto il fatto che le spese per comunicazione e pubblicità debbano automaticamente essere classificate come accessorie". Se lo scopo di una associazione è per esempio aumentare la consapevolezza del pubblico riguardo uno specifico problema, investire in comunicazione è parte della mission. L'esempio portato dall'articolo è il Wounded Warrior Project, una non profit che realizza programmi di reinserimento per veterani; la spesa annuale per comunicazione e pubblicità ammonta a 49 milioni di dollari, ma solo l'1% di questa cifra è iscritta a bilancio come onere accessorio, il resto è considerato parte della mission. Ma anche altre organizzazioni come la Ymca, Goodwill Industries, American Cancer Society e perfino la Croce Rossa iscrivono a bilancio una bassissima percentuale delle spese in pubblicità come spese accessorie (la Croce Rossa, per esempio, considera accessorie il 10% di queste uscite).

"Gli eccessivi timori di essere messe sotto accusa per aver speso troppo per farsi conoscere sono infondati", conclude Mittendorf. "Non so se le associazioni potrebbero automaticamente crescere se investissero di più in pubblicità, ma sicuramente se ne facesssero buon uso e potessero dimostrarlo, i donatori non ne sarebbero scandalizzati. Anzi".


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