Mondo
La “nostra” Susan tra i fermati in Siria
Tra i quattro giornalisti italiani fermati ieri in Siria anche la collaboratrice di Vita, Susan Dabbous. «Vado a cercare qualche storia bella da raccontarvi» ci aveva detto cinque giorni fa
Quando ci siamo sentiti, a metà della scorsa settimana, era gasatissima per questo progetto: «Parto con una troupe della Rai, andiamo a fare un lavoro molto bello in Siria, è un progetto interessante. Spero di trovare qualche bella storia positiva per Vita, magari già subito per il numero di maggio». Seduti di fronte al pc di redazione, a Milano, sentire via cellulare per pochi minuti Susan Dabbous – una dei quattro giornalisti rapiti ieri nel nord della Siria, al confine con la Turchia – metteva sempre adrenalina. Freelance per scelta, nome e cognome siriano ma accento marcatamente romano, Susan ha scelto di fare la giornalista "sul serio": da un anno si era trasferita da Roma a Beirut, per raccontare la tragedia siriana in presa diretta per diverse testate italiane (oltre a Vita, per Il Foglio, per Il Fatto Quotidiano), andando a visitare i campi profughi al confine tra Siria e Turchia, raccontando il dramma di chi, fuggito attraverso il confine e finito in Libano, viveva in maniera drammatica le continue stragi del "grande gioco" siriano.
Ma nei suoi racconti (l'ultimo pezzo scritto per Vita, pubblicato sul numero di dicembre, lo trovate qui sotto) Susan cerca sempre di trovare il lato positivo di storie ed eventi. Di pescare quel filo di speranza che anche in una terra così martoriata resta vivo, permette di continuare a credere nel futuro. «Storie belle», era l'input che ci davamo ogni volta, non serviva altro per capirsi. La notizia della "storia brutta" che Susan sta vivendo in queste ore – insieme ai tre colleghi Amedeo Ricucci, Elio Colavolpe, Andrea Vignali – ci lascia in ansia e in attesa. Rispettiamo la richiesta di "silenzio stampa sulla vicenda" inoltrata dalla Farnesina, che da subito si è messa all'opera per risolvere il caso in tempi ci auguriamo rapidi.
Arsal, la città senza finestre
di Susan Dabbous
Un fornello da campo, otto materassi di gomma piuma e un sacco di lenticchie. Cose essenziali in un alloggio di fortuna; ma ciò che colpisce di più della casa di Aisha sono i colori. L’ultimo dei suoi quattro figli le gattona intorno facendo lo slalom tra le sue ginocchia e una montagna di patate da pelare per sfamare una famiglia di dieci persone. Tappeti, lenzuola, federe, cuscini. Il verde, l’azzurro e il fucsia creano un’allegra composizione cromatica come a voler scongiurare il rischio più grande dopo tanti mesi di vita da profughi: la depressione. Mancano i riscaldamenti, l’acqua corrente, le finestre, ma il buon umore no, quello sembra essere l’unico ingrediente fondamentale per tirare avanti. Quaranta famiglie siriane vivono così in uno stato semibrado ai piedi di una moschea in costruzione, ad Arsal, piccola cittadina libanese a pochi chilometri dalla frontiera siriana. In tutto il Libano sono oltre 107mila i profughi provenienti dal paese confinante, ma si tratta solo di quelli registrati dall’Alto commissariato Onu per i rifugiati, Unhcr. Le cifre vere sono ben diverse, nella più realistica delle ipotesi sarebbero almeno il doppio se non molti di più. I tempi di arrivo sono diversi: c’è chi è qui da un anno ed ha perso la speranza di tornare, chi è arrivato da tre mesi e chi invece è appena fuggito dall’ennesimo bombardamento di una guerra la cui fine continua ad allontanarsi di giorno in giorno. Così i più poveri, quelli che non possono permettersi di pagare 200 dollari di affitto al mese, vivono in strutture in costruzione senza porte e finestre.
Arsal si trova a oltre mille metri di altitudine, molto presto inizierà a nevicare. Teli di plastica, tenuti alle pareti di cemento crudo con lo scotch, sono gli unici rimedi per evitare che il vento gelido entri durante la notte. Medici senza frontiere, Msf, ha registrato l’aumento di malattie respiratorie, diarrea e dermatiti sui piccoli che vivono in ambienti malsani. Uno dei compiti più delicati della Ong, è proprio quello di far accedere i profughi alle cosiddette cure mediche secondarie non garantite dagli ospedali pubblici né delle agenzie Onu, se non per i casi da codice rosso. Chi soffre di malattie croniche come anemia, pressione alta e diabete è costretto a pagarsi le medicine privatamente. Dentisti, ginecologici, dermatologi e psicologici sono quindi beni di lusso a cui per il momento hanno accesso gratuitamente solo una minima parte dei profughi, quelli che vivono nei grandi centri urbani come Tripoli, città a Nord del Libano dove Msf opera all’interno dell’ospedale Zahara.
I problemi intestinali sono per lo più legati all’acqua. Quella potabile è solo in bottiglia per il resto, nelle case abusive, come ad Arsal ci si rifornisce attraverso grandi cisterne piazzate su stradine senza asfalto. Ed è intorno all’acqua che ruota la vita delle tante persone che non hanno un lavoro.
«Mio marito è l’unico a lavorare – racconta Aisha mentre allatta il piccolo su un tappeto colorato – e deve mantenere cinque donne: me, mia sorella, e tre cognate vedove». L’impiego più diffuso ad Arsal è nelle cave di pietra, lo stipendio mensile di un manovale non supera i 400 dollari. L’infelicità di Aisha nel dover condividere le proprie misere risorse col resto della famiglia appare evidente: «Non si può andare sempre d’accordo. E dopo un anno qui abbiamo perso quel senso di paura che ci rendeva tutti più uniti. Ora dobbiamo pensare a come sopravvivere in Libano dove tutto è più caro e i soldi che ci dà l’Unhcr bastano solo per comprare del cibo». Il Libano sta diventando poi il posto dove tanti nonni siriani si riscoprono genitori e accudiscono i piccoli orfani.
Mona, otto anni, ha perso la mamma tre mesi fa a Qusair, città martoriata vicino a Homs, mentre suo padre combatte nell’Esercito libero siriano. Ora si trova ad Arsal con sua nonna che accudisce anche i figli delle altre famiglie con cui condividono l’alloggio. «La bambina – racconta l’anziana – da quando ha perso la madre soffre di ansia e sonnambulismo. La notte sono costretta a legarle una manina a me perché potrebbe uscire di casa senza accorgermene. Non c’è la porta. Come faccio a sentirla?». La porta della loro dimora è un pezzo di stoffa logoro che pende dal soffitto.
Oltre a Mona, non mancano i bambini che hanno perso entrambi i genitori, per loro però non ci son strutture specifiche perché vengono presi in custodia dai familiari più vicini. Al momento non esiste quindi né un orfanotrofio, né un censimento ufficiale di quanti orfani siriani abbia prodotto questo conflitto che conta oltre 30.000 vittime dall’inizio delle rivolte, del 15 marzo del 2011. Su questo equivoco stanno nascendo gruppi di dubbia provenienza che raccolgono denaro per “gli orfani siriani”. Il modo più sicuro per fare donazioni, quindi, è procedere attraverso le organizzazioni note che utilizzano i fondi per i bambini, tutti, e non solo per quelli senza genitori. Oppure fidarsi delle Ong internazionali che operavano con gli orfani in Siria prima della guerra, anche se ora sono state quasi tutte costrette a cessare le proprie attività o a lasciare il Paese. Ad essere ancora attive a Damasco sono le agenzie Onu che lavorano con i rifugiati (in larghissima parte palestinesi ed iracheni) e Terres des Hommes, TdH, che si sta concentrando principalmente nell’assistenza dei più piccoli, provvedendo soprattutto latte e pannolini. Operazioni affatto semplici in un contesto di guerra dove fabbriche chiuse e strade distrutte rendono i rifornimenti delle città sempre più difficili. Anche per questo fuggono i siriani. «Sono venuta qui perché a Qusair non c’era più niente e poi non volevo far perdere l’anno scolastico ai miei figli – spiega una donna in fila per le medicine al Zahara Hospital di Tripoli -. È da marzo scorso che non vanno a lezione. La loro scuola è diventata una base militare».
Secondo i dati ufficiali sono solo 7000 i bambini siriani iscritti nelle scuole pubbliche libanesi ovvero una minima parte di quelli presenti nel paese. La metà del numero totale degli oltre 100mila profughi, infatti, è rappresentata da minori, si fa presto a capire quindi che il tasso della dispersione scolastica è davvero significativo. I bambini non registrati presso l’Unhcr, inoltre, non possono frequentare le scuole pubbliche, in alternativa i genitori li iscrivono in scuole private islamiche totalmente gratuite. Si tratta di corsi messi a disposizione sia da gruppi politici, come i Fratelli Musulmani, che da organizzazioni umanitarie come il Syrian refugees cordination, associazione che dipende finanziariamente dal Consiglio nazionale siriano, il principale organo dell’opposizione all’estero. Le lezioni si svolgono nel pomeriggio e durante il fine settimana seguendo un sistema di turnazione che divide gli ospiti dagli autoctoni. Ai bambini siriani vengono dati i vecchi libri di sempre, ma epurati delle pagine dove appare la propaganda di regime. Via quindi le foto del presidente Bashar al Assad e i testi delle canzoni che lo glorificano. Oltre le questioni ideologiche, il vero scoglio del sistema scolastico libanese sembra essere l’uso della lingua francese, che i bambini siriani non conoscono. Seppure non mancano modelli di integrazione, come ad Arsal, dove bambini libanesi e siriani vanno in classe insieme.
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