Mondo

Quelli che vorrebbero che la cooperazione restasse (solo) carità

Dietro l'articolo di Repubblica c'è l'idea che la cooperazione debba limitarsi ad essere carità spicciola. Mentre i numeri del bisogno di giustizia nel mondo impone un passo in più

di Gianni Rufini

Così Gianni Rufini, presidente del comitato dei Garanti di AGIRE, sul suo blog su repubblica.it replica all'articolo apparso lunedì 7 gennaio sulla presunta «industria della carità». Ecco il testo.

Leggo su Repubblica del 7 gennaio un articolo di Vladimiro Polchi sulle ONG, che sembra una “inchiesta”. Un’inchiesta con tanto di grafici e tabelle, che però si basa su un’unica fonte d’informazione, un libro di prossima pubblicazione, “L’industria della carità” di Valentina Furlanetto.  Il libro non è ancora uscito ma già dal titolo ci mette subito di fronte al dato che caratterizza culturalmente la visione dell’autrice: in fondo, fare cooperazione è fare “carità”. Poi, scopiazza vergognosamente il titolo del best seller “L’industria della solidarietà” dell’olandese Linda Polman, regina assoluta del genere “sputare su tutto”, una serie di volumi scritti da quel tipo di giornalisti che ama presentare tutto come sporco, losco o almeno sospetto.

Quelli che si indignano se dopo una settimana di lavoro da 14 ore al giorno, uno la domenica si riposa. Che si scandalizzano se spendi 40.000 dollari per comprare una fuoristrada per lavorare, anziché trasportare i carichi in spalla per i sentieri della foresta tropicale.
Quelli che “il 20% dei fondi va in stipendi per i cooperanti!”, perché i cooperanti dovrebbero essere tutti ricchi di famiglia e lavorare gratis. Quelli che “una parte dei fondi va a pagare il costo delle organizzazioni!”, le quali invece dovrebbero rifiutarsi di pagare l’affitto e la bolletta del telefono. Quelli che “adesso si fa più emergenza e meno sviluppo, perché rende di più!” (affermazione, peraltro, del tutto infondata). Come se le emergenze non fossero decuplicate negli ultimi vent’anni. Come se il mondo non avesse visto un aumento dell’800 per cento dei disastri naturali e il moltiplicarsi delle guerre.

Quelli che “organizzazioni come Amnesty o Greenpeace spendono la maggior parte dei fondi in campagne!”, come se informazione e sensibilizzazione non fossero esattamente lo scopo per cui esistono e per cui la gente (badate, “la gente”, non i governi) le finanzia. Quelli che “se non ci fossero gli aiuti, le guerre finirebbero prima e risparmieremmo un bel po’ di soldi”, non dovremmo che seppellire i cadaveri.

Quelli che non hanno ancora capito (a differenza di gran parte dei cittadini) che la cooperazione è oggi uno dei pilastri portanti del sistema di relazioni internazionali, che deve affrontare i bisogni di un miliardo di persone malnutrite, 250 milioni di vittime delle guerre, 300 milioni di vittime di disastri naturali, 2,5 miliardi di persone prive di acqua pulita e latrine, 45 milioni di rifugiati e sfollati, 35 milioni di malati di AIDS, e 1,3 miliardi di persone che vivono con meno di due euro al giorno. Se l’aiuto è diventato una “industria” anziché essere una piccola nicchia artigianale, è in forza di questi numeri giganteschi.

Il tutto poi condito da frasi tipo “le attività del Terzo Settore sono guidate da logiche simili a quelle delle multinazionali”, o la preziosa “il nuovo (sic) business della beneficenza (sic)” che dà il titolo all’articolo di Polchi.

Ma perché uno si mette a scrivere di cose che non capisce? Certo, la cooperazione è un settore complesso, che richiederebbe almeno un po’ di ricerca, prima di essere affrontata in un libro. È materia difficile, che si studia nelle università. Eppure non dovrebbe essere difficile documentarsi un po’: esistono centinaia di centri studi, migliaia di volumi e di siti web, e centinaia di migliaia di persone che ci lavorano e che la potrebbero spiegare a un giornalista serio, ma evidentemente non è questo il caso.

Ma non è questo il solo problema. Dietro chi scrive queste cose si intravede anche una visione del mondo che dice: non possiamo farci carico di miliardi di sfigati. Dare una mano, vabbé, purché sia poco e fatto in modo dilettantesco. In fondo si tratta di carità, qualche spicciolo donato a un mendicante, non il tentativo di portare un po’ di giustizia in questo mondo.


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