Welfare

Revelli: “La situazione è ancora più grave dei dati Istat”

Il sociologo legge in profondità le nuove cifre sulla deprivazione nel Belpaese, che parlano di un italiano su tre a rischio. "Politica inerte, uniche luci le collaborazioni tra enti locali e non profit"

di Daniele Biella

"I dati Istat sono aggregati, mettono insieme indicatori diversi: città e piccoli Comuni, Nord e Sud Italia, che invece hanno tendenze molto diverse tra loro. Riflettono sì una situazione drammatica, ma con un trend negativo non esagerato. In realtà la vera fotografia è ancora peggio". Non usa mezzi termini il sociologo Marco Revelli nell’approfondire gli ultimi dati in materia di povertà ed emarginazione sociale pubblicati dall’Istituto nazionale di statistica, che collocano l’Italia ben al disopra della media Ue di individui a rischio povertà, il 28,4% contro il 24,6%.

A cosa si riferisce quando parla di quadro peggiore di quello che esce dai dati ufficiali?

Alle nuove povertà occulte, ovvero per esempio alle famiglie che fino a pochi mesi o un paio di anni fa avevano due redditi impiegatizi e ora ne hanno perso almeno uno: con almeno due figli minori, un mutuo da pagare e qualche credito al consumo, ora sono in crisi, e l’Istat non li vede ancora. E’ la condizione di sempre più persone, con l’aggravante che esse non hanno alla base una ‘cultura di povertà’ che permette loro di far fronte all’improvviso abbassamento del tenore di vita.

In che senso?
Molti poveri da generazioni sanno come arrangiarsi per non sprofondare. I nuovi poveri non hanno né reti sociali né sanno dove andare a cercare i sussidi pubblici, anche perché tutta la cerchia di amici e conoscenti spesso fa parte dello status sociale che avevano prima che cominciassero i problemi. In un certo senso, sono ancora più poveri dei poveri, al nord più che al sud: dove il reddito medio è più alto è maggiore l’impatto della crisi, per esempio a Torino è più difficile che a Napoli.

Come saranno i prossimi anni?
Purtroppo il piano inclinato in cui siamo non diventerà meno ripido. Anche perché la classe politica non ha capito fino in fondo il problema ed è stata finora inadeguata: a livello italiano, con il precedente ministro del Welfare Sacconi, puntando sugli ammortizzatori sociali che però sono serviti solo per un periodo limitato. Con questo governo, invece, puntando su una riforma pensionistica inadeguata, che è come sale sulle ferite, perché non permette il ricambio generazionale e fa lavorare fino a 67 anni persone anziane che potrebbero essere molto utili ai propri figli nell’aiuto per la crescita dei figli.

Nessuna via d’uscita?
In primo luogo si dovrebbe introdurre anche in Italia un reddito minimo garantito. Nella Ue siamo gli unici assieme  a Grecia e Ungheria a non averlo. Poi, ma qui entra in gioco il virtuosismo del non profit e del volontariato e viene meno il ruolo della politica nazionale, si dovrebbe moltiplicare tutte quelle esperienze locali che risultano essere un paracadute per le famiglie in crisi.

A quali esperienze virtuose si riferisce?
A quelle dove enti locali e del privato sociale come associazioni, fondazioni bancarie o cooperazione si mettono insieme e prendono misure di sostegno alle persone a rischio. Ne conosco una molto interessante a Torino, per esempio, dove servizio sociali, ufficio pio e volontariato hanno attivato un sistema di protezione di chi è in condizioni di disagio che sta funzionando bene. Il progetto si chiama Il trapezio.

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