Cultura

La signora della open science

Oggi ha incontrato il presidente Napolitano. Tutti parlano del rischio che lei lasci l'Italia. Vita l'ha incontrata per la copertina di ottobre, sulle 50 donne che stanno cambiando l'Italia. Ecco chi è Ilaria Capua

di Sara De Carli

I virus non aspettano. Non aspettano oggi e non aspettavano cinque anni fa. Se ne fregano delle frontiere, della burocrazia. Ma almeno oggi, grazie a database aperti, i ricercatori di tutto il mondo hanno accesso ad ogni singola scoperta, e ogni risultato diventa immediatamente un mattoncino in più con cui costruire, un patrimonio comune da cui ripartire. Solo cinque anni fa invece,  con tutto il mondo in fibrillazione per l’aviaria e il timore concreto che quell’epidemia potesse spazzar via mezza umanità, le scoperte andavano depositate in database chiusi, accessibili solo a pochi, potenti, eletti scienziati.

L’open science è una rivoluzione recente, anche se per i non addetti ai lavori la cosa ha dell’inverosimile. Ed ha una protagonista italiana. Si chiama Ilaria Capua, ha 46 anni, è veterinaria e virologa e dirige il Dipartimento di Scienze Biomediche Comparate dell’IZSVe, l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie. Nel 2008 la rivista americana Seed l’ha messa tra le cinque «revolutionary minds» dell’anno. Giusto un anno fa, nel settembre 2011, stava a Filadelfia, per ritirare il Penn Vet Leadership Award, 100mila dollari e il prestigio di quello che è quasi un Nobel nel suo settore, più l’orgoglio di essere la prima donna nella storia a riceverlo. Non per nulla la Commissione europea l’ha appena scelta come testimonial per la sua campagna Science it’s a girl thing, per avvicinare le ragazze alla ricerca scientifica. Ilaria Capua è un’eccellenza italiana. È la prova che anche in Italia “si può fare”. E per la prima volta si racconta in un libro autobiografico, “I virus non aspettano”, presentato a Trieste Next. La incontriamo nel suo ufficio a Legnaro, fuori Padova: piccolo, senza fronzoli, senza filtri. Come lei. Ne esce un’intervista dove si toglie anche qualche sassolino dalle scarpe. Rigorosamente col tacco 10, preferibilmente fluo.

Torniamo al 2006. Primi al mondo, siete riusciti a isolare il virus H5N1 in Nigeria e a trovarne la sequenza genetica. Secondo l’Oms lei avrebbe dovuto depositare la sequenza in un database accessibile solo a 15 laboratori, ricevendone in cambio la password. Lei ha invece ha deciso di metterla su Gen Bank, un database aperto. È stato un travaglio?
In realtà è stata una decisione molto semplice: per me era l’unica cosa da fare. Siamo pagati con fondi pubblici per  cercare di difenderci da una potenziale epidemia che potrebbe spazzare via mezza umanità? Sì. Siamo tutti qua a investire soldi in ricerca per tentare di fermarla? Sì. E allora come puoi permettere che i dati più “hot” li vedano solo 15 laboratori al mondo? Mettere i dati in una banca segregata è una cosa che non si fa. Non aveva senso, non mi ci volevo nemmeno sporcare le mani, non volevo far parte della cricca. Quando io ho avuto il mio tesoretto, questo virus africano, ho detto: sapete che vi dico? Vi do l’esempio, voglio che tutti voi che ci state lavorando abbiate la possibilità di studiarlo.

Lei è diventata un eroe…
Intanto eroe per caso. All’inizio ho avuto aspre critiche, soprattutto da chi era dentro il sistema, poi il web e il dibattito che si è aperto sulla stampa internazionale mi ha aiutato. Certo ho dato fastidio ad alcuni, ma me ne faccio una ragione. Devo dire che io non mi sono resa conto subito della portata di quel che stavo facendo, ne siamo rimasti tutti un po’ tramortiti. Quel che mi dispiace è che sia rimasta una cosa mia, che l’Italia non ha fatto sua. È stata un’occasione mancata.

In che senso?
Io lavoro in un ente pubblico, siamo parte del servizio sanitario nazionale e dipendiamo dal Ministero della Salute e dalle Regioni, poteva essere un modo per proporre qualcosa di nuovo a livello internazionale. Invece non è stato fatto. Perché? Perché l’Italia si non fa sistema, non vede le opportunità, non so. Tant’è vero che un approccio più trasparente alle infezioni alla fine l’hanno proposto gli olandesi, come se fosse un’idea loro. Invece si poteva capitalizzare, l’Italia ha molto bisogno di riconoscimento internazionale per delle buone idee e questa poteva essere un’occasione da sfruttare.

Cinque anni dopo, cosa è cambiato?
Già nel 2006 l’Organizzazione Mondiale per la sanità animale e la FAO hanno sposato la causa e cambiato i loro regolamenti sulla trasparenza dei dati. Poi nell’aprile 2011 l’OMS ci ha dato ragione, con una risoluzione  che dice che la trasparenza dei dati è essenziale per essere meglio preparati e  prevenire le epidemie. Rispetto al 2006 diversi data base sono stati aperti, quello famoso dei 15 laboratori ha chiuso, l’NIH ha creato un database grandissimo e tutti i ricercatori americani devono depositare là dentro, poche settimane fa ho letto di un database per le sequenze genetiche dei patogeni alimentari, quindi questo nuovo approccio ha mostrato una nuova strada in tutte le discipline. Sono cambiate le politiche internazionali ed è stata creata una infrastruttura per gestire queste informazioni. Non si torna indietro.

Manca ancora qualcosa per una vera scienza opensource?
Certo, perché le teste delle persone non si cambiano in un giorno. Tanti ancora depositano solo dopo aver pubblicato, e così passano un paio d’anni. È questa la tragedia.

Non è legittimo?
Io lo dissi all’epoca: preferisco dare un’accelerazione alla ricerca di tutti piuttosto che pubblicare un altro lavoro del mio gruppo. Tant’è che quella sequenza di geni nigeriana è andata su Nature nella pubblicazione di un altro gruppo. Pazienza, io intanto ho la coscienza a posto. Credo si debba guardare oltre al tuo interesse specifico, specialmente se c’è un rischio imminente  per la salute pubblica.

Lei tiene molto a sottolineare di essere un “dipendente pubblico”. Quindi non è vero che è impossibile fare ricerca a livelli di eccellenza anche in Italia?
È difficilissimo ma si può fare. La burocrazia ti ammazza e devi lavorare il doppio per ottenere lo stesso risultato. In Italia poi non c’è un sistema che premia  il merito. Allora?  Se necessario ti devi muovere. In Italia non puoi fare quello che vuoi? Bene, vai da un’altra parte. Le partite si giocano sempre a livello internazionale. Poi magari torni, o magari no. Si dice che se vai all’estero poi qui nessuno ti tiene il posto. Ma perché ai ricercatori  europei che lasciano il loro paese per fare ricerca qualcuno tiene il posto? No, sono loro che sono motivati a fare una vita che li appassiona, non importa dove. Purtroppo c’è una malattia tutta italiana di accontentarsi di cose che ti piacciono a metà, solo perché è quello che c’è vicino a casa.

[…]

I nostri modelli di scienziata sono  Margherita Hack e Rita Levi Montalcini. Sono ancora validi?
Mi sono innamorata del percorso  e del coraggio  della Montalcini a 18 anni, che mi ha ispirato per diventare ciò che sono adesso. Sono però donne  di un’altra epoca. Una ragazzina che fa sport si può ispirare a Federica Pellegrini, che può piacere o no, però è una ragazza di questa generazione, con i tatuaggi, che va alle Maldive, va a ballare. Le  ragazze interessate alla scienza non hanno modelli di riferimento. C’è assolutamente bisogno di nuovi modelli, più attuali, con le contraddizioni  di lavorare e vivere in questa epoca , ma anche con il diritto di andare in vacanza  e cogliere le occasioni che il terzo millennio ti offre.

Lei è un modello?
Non esageriamo! Sono un esempio  e  ci tengo a dimostrare che si può fare. Che si può avere una vita normale e una famiglia normale. Però super-organizzata: mio marito e io abbiamo le agende sincronizzate fino a metà 2013!

 

 


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