Mondo

Solo per farti sapere che sono viva

La testimonianza delle prigioniere saharawi in documentario inedito. Da sostenere con il crowdfunding

di Benedetta Verrini

La prima scintilla della primavera araba si deve a loro, gli uomini e le donne del popolo saharawi, che nell’ottobre del 2010 hanno allestito un imponente (erano in 20mila) “accampamento della dignità” a Gdem Izik, nel Sahara Occidentale, per rivendicare condizioni socio-economiche migliori del nulla assoluto in cui vivono da quarant’anni, stretti da fame, mancanza di lavoro, assenza di prospettive per i figli.
Niente da fare: l’8 novembre di quello stesso anno l’intervento armato dell’esercito marocchino ha soffocato la loro protesta, lasciando sul campo 13 morti, arrestando 200 persone, di cui 23 sono tuttora in carcere senza giudizio (dopo un’attesa di quasi due anni, il processo si apre il prossimo 24 ottobre).
 


Elghalia Djimi, oggi vicepresidente dell’Associazione saharawi delle vittime di gravi violazioni dei diritti umani (ASVDH), ha perso i capelli in seguito alla tortura subita in un carcere marocchino. Questa e’ una sua foto giovanile: accanto, Elghalia ha scritto un breve diario, dove racconta la sua storia e auspica una soluzione rapida e pacifica alla situazione del suo Sahara Occidentale
 


Il documentario
A testimoniare la vicenda, come le tante altre che costituiscono la trama della storia saharawi, le voci femminili del documentario “Solo per farti sapere che sono viva”, realizzato dalla giornalista Emanuela Zuccalà insieme alla fotografa Simona Ghizzoni.
Un racconto corale, in cui le voci singole compongono il quadro generale di un popolo sospeso in un limbo, tra gli accampamenti profughi dell’Algeria e le città lunari del Sahara Occidentale, occupate nel ’75 dal governo di Rabat. C’è la voce di Leila Dambar, che da un anno e mezzo chiede inutilmente alle istituzioni marocchine l’autopsia sul corpo del fratello, ucciso dalla polizia poco dopo i fatti di Gdem Izik. C’è Elghalia Djimi, che porta scritta sulla pelle la ferocia della tortura. Ci sono Hadija Hamdi, la first lady saharawi, che tenta di far circolare arte e cultura nel nulla dei campi profughi e la poetessa Nana Rachid, che ha fondato una casa editrice per conservare le storie del suo popolo disperso.

Leila Dambar, sorella del giovane Said ucciso dalla polizia marocchina in circostanze misteriose dopo i fatti di Gdeim Izik. Dal dicembre del 2010, la famiglia Dambar chiede al governo marocchino l’autopsia sul cadavere del ragazzo, ma finora nessuna risposta. Said giace da allora all’obitorio di Laayoune. Leila piange per il doloroso pensiero di non potergli ancora dare sepoltura.
 


La sfida della raccolta fondi
Testimonianze sommesse e cocenti, che aspettano una risposta da noi, dal mondo: per vedere la luce il progetto si appoggia al crowdfunding, una raccolta fondi online, con obiettivo dichiarato di raggiungere la cifra di 12mila euro entro il 22 novembre. E’ una sfida: se non si arriva all’obiettivo i soldi vengono restituiti ai donatori. Ma al di là del contatore, la scommessa è anche di natura culturale: far sì che un reportage rigoroso e indipendente possa circolare, far sì che quelle persone possano davvero essere ascoltate.
“Abbiamo scelto questo titolo, “Solo per farti sapere che sono viva”, perché era la frase che le donne saharawi scrivevano ai mariti profughi in Algeria quando la loro terra veniva invasa dall’esercito marocchino”, spiega Emanuela Zuccalà. “I rapporti di Amnesty International e Human Rights Watch  parlano di sparizioni forzate, tortura, prigioni segrete, fosse comuni, processi sommari o inesistenti. Brutalità che dagli anni Settanta si protraggono fino a oggi, come ha documentato di recente la Fondazione Kennedy”.
Tra i 200mila saharawi nei campi profughi algerini e i saharawi indipendentisti rimasti in Sahara Occidentale, è stata posta una spaventosa barriera, un muro lungo 2.700 chilometri, che corre nel deserto a separare madri e figli, mariti e mogli. Famiglie spezzate che non si vedono da anni, ma che resistono. Le loro testimonianze, raccolte nel documentario di Zuccalà e Ghizzoni, ci chiamano. E ci chiedono di essere ascoltate, una volta per tutte.
 

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