Non profit

La filantropia strategica si misura col cuore

Presentato il Centro studi di Fondazione Lang Italia. Obiettivo: definire criteri per misurare l'impatto sociale delle azioni filantropiche. Unendo algoritmi finanziari e ragioni del cuore

di Mattia Schieppati

Dopo un'incubazione durata alcuni mesi «mesi di contatti e rapporti tessuti tra Italia, Stati Uniti, e esperti di filantropia in Europa» spiega il presidente Tiziano Tazzi, è stato presentato il Centro studi di Fondazione Lang Italia, fondazione filantropica promossa nel giugno 2011 da un trust (il Lang Trust) finanziato da un filantropo milanese.

La Fondazione Lang Italia oltre a selezionare e controllare portafogli filantropici di non profit attive nel settore dell'infanzia, si è immediatamente (e coraggiosamente) impegnata sul fronte più complesso della nuova Venture Philanthropy: l'individuazione e la definizione di modelli e standard di misurazione dell'impatto sociale di un investimento filantropico. Per fare questo (oltre che per " promuove lo studio e la pratica di strategie d’intervento efficaci per lo sviluppo del Terzo settore) ha appunto dato vita a un Centro Studi – che si avvale, tra gli altri, della competenza di uno dei massimi guru mondiali del settore, lo statunitense Mario Morino – e che è diretto da Franco Marzo e attiverà, dal gennaio 2013, il primo corso di Executive Education in Filantropia strategica, per formare la prima generazione di "philanthropy advisors". «Quando abbiamo iniziato la nostra attività come fondazione abbiamo cominciato a porci delle domande chiave per orientare la nostra attività: dove e come è meglio investire? Qual è il modo più efficiente per mandare a buon fine il nostro investimento sociale?», racconta Tiziano Tazzi, presidente della Fondazione. «È partendo da queste domande funzionali al nostro operare che è nato il nostro tentativo di comprendere meglio i meccanismi che legano filantropia, non profit e chi beneficia in ultima istanza dell'attività che viene finanziata e svolta». Abbiamo approfondito con Tazzi questo approccio.

Da dove iniziare per misurare l'impatto della filantropia?
«Innanzitutto, da una presa di coscienza – e di responsabilità – maggiore da parte della filantropia stessa. Che deve imparare a guardare di più al mondo profit, in questo senso: l'attività di impresa orienta al risultato, l'obiettivo è arrivare a qualcosa che sia apprezzato da chi sta all'ultimo anello della catena, il cliente. La filantropia invece ancora molto spesso attua interventi in cui il – chiamiamolo così – cliente finale non è colui che paga, e così a volte la soddisfazione di questo ultimo anello viene un po' trascurata. Non sempre si va a verificare che tutto il processo abbia portato a soddisfare quello che il "cliente" avrebbe dovuto ricevere come beneficio dell'azione».

Come si misura questo grado di soddisfazione, questo "impatto sociale"?
«Questa è oggi "la" domanda di chiunque faccia attività filantropiche. Ovviamente, la via più immediata è applicare alla filantropia i modelli di analisi e valutazione sviluppati dal mondo della finanza, o da chi analizza business plan profit. E infatti molte istituzioni finanziarie negli Usa e in Europa stanno creando delle unità interne specializzate nella filantropia, dove lavorando persone che hanno competenze prettamente finanziarie, e che cercano di applicare alla filantropia. Ma questo non è corretto, a nostro parere. La visione della strategia filantropica ha dei valori, degli orizzonti e dei tempi di valutazione più ampi di quelli che sono i tempi dell'analisi finanziaria. Non bisogna fare l'errore di passare da un estremo all'altro, da una carenza di misurazione a un'eccesso di misurazione: troppi numeri spesso nascondono la verità».

C'è una terza via?
«Noi pensiamo che ci possa essere un modello di riferimento che proponga dei "punti di attenzione" che vanno considerati come se fossero i cardini dell'esame di coscienza che ogni organizzazione deve fare ogni giorno "prima di andare a letto". L'abbiamo sintetizzato nel modello di valutazione delle 3C&4P. Dove le P (Performance, Planet, People, Person) rappresentano la parte numerica, più quantitativa dell'analisi, ci ricordano che dobbiamo sempre considerare una serie di campi di applicazione; sono un riferimento per chiederci: abbiamo pensato a tutto? A tutte le prospettive? Mentre le tre "C" (Cause, Continuità, Creatività) sono l'aspetto più qualitativo: ho pensato a rimuovere le cause, a dare continuità a questa azione, a fare in modo che possa generare nuove opportunità per altri, in futuro per altri?
È un modello che non vuole essere una gabbia in cui ad ogni valore è affiancato a un numero preciso che sommato a un altro numero preciso dà un risultato certo. È un modello di riferimento per strutturare l'analisi delle azioni che vengono svolte. Deve restare spazio per il cuore».

Algoritmo più cuore: chi è il misuratore ideale?
«Noi ci immaginiamo una sorta di economista-antropologo. Idealmente tutti i modelli pensano di riuscire a essere così perfetti da essere indipendenti dal misuratore. Noi pensiamo che l'utilizzo del modello debba andare di pari passo con l'acquisizione di competenze specifiche ma ad ampio raggio su tutto quello che riguarda la filantropia. Una competenza da philanthropy advisor che è sempre più necessaria, per esempio, ai manager di un'organizzazione non profit, ma che è richiesta oggi anche a chi – consulenti private, o anche notai e commercialisti – si trova a dover dare consigli di investimento a potenziali filantropi».

Sul numero di Vita di ottobre, in edicola da venerdì 5, un servizio di approfondimento sul tema della Venture Philanthropy

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