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Il sociologo Bauman sugli effetti della crisi

Interessante intervista a Zygmunt Bauman, di cui per i tipi Laterza è da poco uscito “Cose che abbiamo in comune”

di Redazione

Ecco l'intervista a Zygmunt Bauman su Lettera 43 (qui il link all’intervista completa), di cui vi proponiamo qualche passaggio su cui riflettere.

Le due vie per uscire dalla crisi. Sulla crisi attuale, l'uomo che ha vissuto molto vede nero. Ma, da sociologo, è molto lineare e lascia la porta aperta. «Ci sono due possibilità», spiega Bauman, «o, come è già successo nella storia, l'umanità cambia rotta e, per sopravvivere, imbocca una strada alternativa alla crescita» oppure, se l'homo consumens non accetterà, con sacrificio, di tornare indietro, «la natura prenderà il sopravvento e sarà la guerra di tutti contro tutti per la redistribuzione delle risorse».
In entrambi i casi, il processo sarà «doloroso», soprattutto nei Paesi occidentali, dove «lo stato sociale è in via di demolizione». Per Bauman, «non è più una questione di destra o di sinistra», ma di lotta per la sopravvivenza.
Eppure i politici propongono la via dell'austerity, per tagliare sprechi e sperperi della società dei consumi.
È una soluzione a breve termine, che di certo riduce la crescita e tiene molte persone disoccupate.

Come fa allora a risolvere la crisi?
Probabilmente, anche i rimedi a breve termine sarebbero dovuti essere diversi. Io, da sociologo, posso esprimermi solo in una prospettiva a lungo termine.
 

Per ora, cosa è arrivato a concludere?
Primo, che la crisi era ampiamente prevedibile. Siamo vissuti per oltre 30 anni al di sopra delle nostre possibilità, spendendo soldi non guadagnati. Il collasso del credito era inevitabile.
(…)

L'Europa non è messa peggio dei Paesi in via di sviluppo?
Questo sì. In Europa e negli Usa la contrazione è maggiore. E in Gran Bretagna, per esempio, si è abusato delle carte di credito più che in Italia, ma il trend è lo stesso.
 

C'è chi parla già di ripresa, grazie alle manovre di austerity.
Di questo mezzo secolo di abbondanza pagheranno lo scotto non solo le attuali nuove generazioni. Ma i loro figli e i loro nipoti.

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Come se ne esce?
Per uscirne, dovremmo necessariamente rivedere i nostri stili di vita. Mettere in discussione tutto quello che siamo stati abituati a pensare o a credere, rinunciando a molti comfort.

Sarà dura.
Chi, come le nuove generazioni, non ha mai provato una vita frugale dovrà imparare da zero un modello alternativo. Chi, come me, ha vissuto per 40 anni senza frigorifero, dovrà riabituarsi a minori comodità.

Sta dicendo di rassegnarci ad andare in peggio?
Non in peggio, a cambiare mentalità. Per millenni, le generazioni hanno vissuto senza televisione e non stavano necessariamente peggio. Di certo, sarà difficile disabituarsi ai comfort. Sarà – se accadrà – un processo lungo e doloroso.

La sconfitta della politica. O una società nuova o la guerra per le risorse

Perché dubita che accadrà, se ritiene possibile l'esistenza di società alternative?
Essere possibile non è essere scontato. Qualcuno dovrà necessariamente guidare questo percorso. La grande domanda è capire quale forza sarà in grado di farlo.

La politica non è in grado?
I governi sono chiaramente incapaci di farlo. Vengono eletti per quattro, cinque anni. Il loro obiettivo è restare in carica. Per riuscirci, dicono alla gente quello che vuole sentirsi dire nel momento.

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Non è un quadro troppo sconfortante?
Ormai la gente ha la certezza che qualsiasi governo non serva a niente. I cittadini hanno perso fiducia nell'élite al comando. E, se vuole la mia personale opinione, penso che abbiano ragione.

Perché?
Da un po' ormai vado dicendo che i politici non hanno più in mano gli strumenti per governare.

In che senso?
 Al momento, siamo in una fase di divorzio tra politica e potere. Il potere è la capacità di fare determinate cose, la politica è la capacità di decidere quali cose devono essere fatte per il Paese. Se 50 anni fa politica e potere erano nelle mani dei governi, oggi il potere è stato globalizzato. Ma la politica no, è nazionale. O, al limite, internazionale.

Può fare un esempio concreto?
Prima i politici decidevano cosa fare e, contemporaneamente, avevano il potere di agire nel campo delle finanze e dell'economia nazionali. Oggi possono pensare a cosa fare, ma agire è ormai un potere fluttuante nella no man's land globale. Le aree locali non hanno più influenza.

Stati e gruppi di Stati sono quindi succubi dei cosiddetti 'poteri forti'.
La situazione è terribile. E fino a che non cesserà questo scollamento, nessuna soluzione a lungo termine potrà essere trovata. Questa è la mia profonda convinzione.

Prima parlava di rivedere gli stili di vita, costruire un modello di società alternativo.
 Non si tratta solo di eliminare i surplus consumistici. Ma di reimparare – o imparare da zero – a essere felici stando nella comunità, coltivare relazioni di vicinato, cooperare.

Non le sembra un progetto utopistico?
Utopistico? Perché mai (ride). È chiaro che tu, io, tutti noi insieme, dovremo discutere seriamente per cambiare i nostri orizzonti, smettendo di spendere nei negozi. Ma, in passato, per la maggior parte della storia dell'umanità, gli uomini trovavano soddisfazione, per esempio, nel creare e nello svolgere lavori ben fatti. I sociologi lo chiamano istinto dell'uomo-artigiano.

E se non ci riusciremo, se non ci sarà la volontà di tornare artigiani?
Allora – è la seconda possibilità – la vita sarà ancora più dura. La natura minaccerà la nostra esistenza. E, se anche non soccomberemo, ci saranno guerre sanguinose.

Guerre per le risorse?
Sì, come ha ipotizzato Harald Welzer in Climate wars, a differenza del 1900, le guerre non saranno ideologiche, ma molto materiali. Ci potrebbero essere grosse guerre per la redistribuzione.

(…)

La fine dello stato sociale e la smitizzazione del '68

Oltre ai consumi che le masse non possono più permettersi, la crisi globale sta distruggendo lo stato sociale.
Tutti i governi lo stanno smantellando, socialdemocratici e di centrodestra. Come per i premier eletti, la scomparsa dello stato sociale non è né di destra, né di sinistra. Del resto, non lo fu neanche sua creazione.

D. Da cosa nacque lo stato sociale?
L'idea che la comunità venisse incontro nei momenti di difficoltà si concretizzò, in modo particolare, dopo la terribile esperienza della Seconda guerra mondiale.

Tutti ne uscirono a pezzi.
Al di là della destra e della sinistra, si arrivò alla conclusione di aver tutti bisogno dell'aiuto reciproco. I lavoratori, ma anche i capi. L'uno dipendeva mutualmente dall'altro.

Perché mai il padrone, the boss, dipendeva dagli operai?
Allora il capitalismo aveva ancora bisogno di lavoratori locali. Era interesse del boss tenere la sua potenziale forza lavoro in buone condizioni. Buona salute, buona istruzione, buona forma. Magari anche una buona auto per andare al lavoro!

Ma a pagare il welfare era lo Stato.
A maggior ragione c'era bisogno del welfare. Con questo meccanismo, i capitalisti abbattevano anche il prezzo per avere forza-lavoro attraente. La comunità pagava loro buona parte dei costi.

Invece oggi?
Oggi le aziende non hanno più bisogno di lavoratori locali. Con la globalizzazione fanno arrivare manovalanza dall'Asia e dall'Africa. Oppure traslocano in Bangladesh.

L'industria è davvero finita in Europa?
Togliamoci dalla testa che ritorni. I disoccupati europei non sono più neanche potenziali lavoratori. La classe operaia – e più in generale la classe lavoratrice dipendente – sta scomparendo molto velocemente. Come nel 1900 accadde con i contadini.
 
(…)

Come il welfare, anche le conquiste del 1968 sono polverizzate dalla crisi.
Da un punto di vista sociologico, rivalutato a posteriori, il movimento del '68 coincise con l'entrata dei cittadini nella società dei consumi. Fu questa la sua conseguenza più duratura.

Non le considera conquiste?
Il '68 fu una rivoluzione culturale, non c'è dubbio. E di certo, gli studenti che scendevano in strada volevano tutto, tranne che sdoganare la società dei consumi.

Ma?
Ma, volenti o nolenti, la conseguenza fu quella. Dall'austerità del dopoguerra emerse una nuova generazione che voleva godersi la vita, semplicemente.
 
L'etica commercializzata e la vitalità del capitalismo

Si prende, si usa e si scarta. Eppure, 20 anni fa, lei guardava all'etica post-moderna come a un salto di qualità. La società liquida non era tutta da buttare.
Avevo, ahimè, sottovalutato l'ingegnosità del marketing capitalista. Pensavo che, dopo secoli di società solida, dove la moralità si identificava con il conformismo, fosse finita l'etica dell'obbedienza ai codici prestabiliti e iniziasse l'epoca dell'agire morale individuale. Un agire autentico e libero, dettato dalla responsabilità delle proprie scelte.

Perché non è andata così?
Nell'era dei consumi, anche l'etica e la moralità sono state commercializzate. In un'epoca dove sei rintracciabile ovunque e, pena il licenziamento, devi fare gli straordinari per il tuo capo, ti senti molto in colpa, per non essere un partner presente, un buon padre o una buona madre.

E allora?
Allora arrivano in soccorso i negozi. Con i regali cerchi di compensare i bisogni della tua famiglia. Come un prozac, sedano il tuo inappagato impulso morale.

Ma non risolvono i problemi.
Affatto. Scambiando i regali come tranquillanti, non sentirai mai che le relazioni umane vanno in pezzi. Togliendo il dolore, non cercherai più la guarigione e diventerai patologico.

(…)
 

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