Economia

L’Italia fiaccata dalle cure che avrebbero dovuto salvarla

Dallo scrittore-imprenditore Edoardo Nesi una chiave di lettura, poetica ma assolutamente concreta, sulla crisi e sulla possibile (e sperabile) via d'uscita.

di Edoardo Nesi

Vista da Prato, da Pesaro, da Biella la crisi appare molto diversa da quella che ci raccontano le televisioni e i giornali: infinitamente più cruda, crudele e profonda. Soprattutto appare essere altrove. Non a Francoforte o a Bruxelles o a Wall Street. La crisi vive e ringhia a Capri, a San Giuseppe Vesuviano, a Civita Castellana, a Sassuolo, nell’immensa Sagunto che oramai circonda Roma, e noi ne siamo i protagonisti muti. Noi che siamo legione, e viviamo del nostro lavoro, e temiamo per il nostro lavoro. Ogni giorno. Noi che facciamo gli artigiani, gli imprenditori, gli impiegati, gli operari, commercianti.

Noi che ogni mattina temiamo di dover ammettere che in tutta la sua storia l’Italia ha vissuto un unico momento di ricchezza più o meno condivisa, un breve quarantennio appena finito, insieme al Novecento. Noi che si vive come le lepri, con le orecchie basse, perpetuamente spaventati dai tagli che ci sono stati inflitti e dalla minaccia di quelli che verranno, gettati a capofitto in un'altra recessione mentre lo spread rimane alto, vittime dell’incubo che non esista una correlazione così diretta tra i nostri sacrifici e la risoluzione della crisi, perché non è noi che vogliono davvero far fuori, gli gnomi della grande finanza globale, ma quell’invenzione romantica e fallata che è l’euro, e con l’euro anche l’Europa.

Noi che inseguiamo le nostre giornate  assistendo allo sgretolarsi di un sistema industriale su cui facevamo affidamento per vivere degnamente le nostre vite. Noi che siamo chiamati a pagare sia i pochi debiti che abbiamo fatto, sia la montagna di debiti che hanno contratto altri. Noi che viviamo in un’Italia ferma, fiaccata sia dalla crisi sia dalle cure che avrebbero dovuta salvarla. Noi che ci rifiutiamo di vedere la crisi come un inevitabile flagello biblico, la punizione dell’empio, l’abbattersi del pugno di un dio cattivo sui suoi innumerevoli fedeli.

Noi che professori non siamo, ma davanti a una crisi totalmente nuova, nata da quella globalizzazione che ha chiuso le nostre fabbriche e condannato alla disoccupazione il 36% dei nostri figlioli, ci chiediamo se sia davvero necessario e inevitabile rispondere imbracciando ideologicamente le antiche ricette, o quelle liberiste o quelle keynesiane.

Perché a noi ignoranti della provincia più profonda sembra impossibile salvare l’Italia solo e semplicemente tagliando con l’accetta la spesa pubblica per ridurre le tasse alle imprese, poiché chi di giorno è un piccolo imprenditore o un impiegato o un operaio, dalle sei di sera ridiventa un cittadino, una persona, e ogni taglio indiscriminato allo stato sociale finisce per abbattersi su di lui, consigliandolo a minori consumi e a una vita di retroguardia. Torneremo a un’Italia ottocentesca, bloccata, che rinnega ogni sua conquista sociale e cancella la sacra speranza di ogni cittadino di poter migliorare la sua condizione, togliendo a chi merita l’opportunità di avviare il sogno di intraprendere, e così creare posti di lavoro.

Ma di certo non salveremo l’Italia nemmeno riavviando a spendere dissennatamente come per decenni ha speso lo stato, o impiegando decenni per costruire nuove autostrade e porti e ferrovie in un Italia che invece deve mirare a diventare il primo paese wireless, o elargendo mance alle famiglie affinchè continuino a comprare paccottiglia prodotta in Cina.

E così a noi di Santa Croce sull’Arno, di Como, di Vibrata, di Carrara non resta che metterci le mani nei capelli ogni volta che sentiamo i politici parlare a vanvera di crescita, e scuotere la testa ogni volta che leggiamo lunari ricette per lo sviluppo di insigni economisti che vivono lontano dall’Italia, e del nostro sistema industriale mostrano di non aver mai capito nulla.

Perché anche il più piccolo degli imprenditori, anche il più modesto dei commercianti potrebbe spiegare a questi signori che la crescita non tornerà finchè nel paese  non si scioglierà la paura del futuro che attanaglia il cuore di tutti, finchè non si diffonderà un’atmosfera respirabile. Finchè non verrà ristabilito almeno un simulacro di credito bancario. Finchè il ministro per lo sviluppo economico non capirà che non si possono lasciar fallire decine e decine di migliaia di piccole imprese manifatturiere, unico vero patrimonio d’Italia, oggi lasciate a galleggiare da sole nei marosi di una tempesta perfetta.

 

Il brano è tratto dall'ultimo libro di Edoardo Nesi, "Le nostre vite senza ieri", edito da Bompiani


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