Salute

Un detenuto su cinque positivo alla Tbc

È uno dei dati su cui si confronteranno medici e addetti ai lavori, dal 26 al 28 settembre a Viterbo in occasione della Conferenza europea sulle malattie infettive, le politiche di riduzione del danno e dei diritti umani in carcere.

di Redazione

Lo studio, presentato in occasione della Conferenza organizzata dalla Simspe-Società italiana di  medicina e sanità penitenziaria e dalla Simit-Società italiana di  malattie infettive e tropicali,  è stato condotto all'interno del Progetto "La salute non  conosce confini", con la collaborazione tra Simspe, l'Associazione  pazienti Nps (Network persone sieropositive), la Simit e il patrocinio  dei ministeri della Giustizia e della Salute, con il contributo  economico non condizionato dell'azienda Farmaceutica Gilead.

Il test cutaneo alla tubercolina – che permette di individuare  coloro che nel corso della propria vita hanno avuto un contatto con il  bacillo della tubercolosi – effettuato per di più solo in pochi  istituti penitenziari italiani e sul 47,4% (1.069 detenuti) della  popolazione in carcere, ha rivelato la positività nel 21,8% dei casi,  con una prevalenza dell'11,8% tra gli italiani e del 43% tra gli  stranieri.

«Il passaggio tra lo stato di portatore  d'infezione a quello di malato attivo dipende dalla capacità del  sistema immunitario del singolo di tenere bloccata, anche per tutta la  vita, l'infezione», precisa Sergio Babudieri, associato di malattie  infettive all'università di Sassari e presidente della Simspe. Ma poichè «lo stato di competenza immunologica – continua  l'esperto – è condizionato anche dal proprio equilibrio generale,  inclusi psiche e sistema nervoso centrale (basti pensare all'esempio  banale del Fuoco di S.Antonio, riattivazione del virus della varicella  quando si è sotto stress psico-fisico), è intuibile come, a fronte  di una elevata percentuale di portatori, aumenti considerevolmente,  soprattutto in carcere, la probabilità che qualcuno sviluppi per  patologia, per stress o in seguito all'assunzione di farmaci  immunosoppressivi, un deficit immunologico che apre la porta alla  riattivazione del bacillo della tubercolosi». Con le conseguenze  epidemiologiche che si possono immaginare in un ambiente chiuso come  quello penitenziario.          Purtroppo, aggiunge Babudieri, lo screening per questa malattia  non viene fatto in tutti gli istituti di pena e «se non c'è  controllo, il rischio per detenuti e operatori può diventare  elevatissimo».  
 


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