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Il sovraffollamento spinge al suicidio
La conferma nell’analisi di Eurispes sui dati di Ristretti Orizzonti, che ha monitorato 9 istituti italiani. Il picco critico durante il primo mese di detenzione. Una tragedia che tocca anche la polizia penitenziaria.
Tra sovraffollamento carcerario e suicidi c’è una correlazione. Secondo l’Eurispes, che ha pubblicato da poco una ricerca che riprende i dati elaborati da Ristretti Orizzonti, all’aumento del numero di detenuti, negli ultimi dodici anni si è generalmente accompagnata anche una crescita degli eventi critici, con picchi in corrispondenza degli anni 2001 e 2009.
L’analisi di Ristretti, in particolare, ha preso in esame i 9 istituti nei quali si erano verificati almeno 2 suicidi nel corso dell’anno. Ebbene in questi casi è stato individuato un tasso di sovraffollamento medio pari al 176%, a fronte di una media nazionale del 154%. Stessa triste sequenza di dati nel 2011: i 9 su 11 istituti coinvolti nel corso dell’anno da almeno 2 eventi, presentano infatti un tasso di sovraffollamento ancora superiore alla media nazionale. Dati che non meravigliano Donato Capece del sindacato di polizia penitenziaria Sappe. «La limitatezza degli spazi a disposizione crea tensione. Manca la mobilità nelle celle e dunque lo spazio vitale. Teniamo presente che nel nostro Paese i detenuti sono chiusi in cella 20 ore su 24. È una gestione assurda. Non c’è rispetto della dignità. La vita del detenuto è sacra e noi dobbiamo rispettarla. Il rischio è che chi è debole non regga l’impatto e tenti il suicidio. Molte volte siamo noi della polizia penitenziaria a salvarli ma non sempre ce la facciamo perché è materialmente impossibile tenere sott’occhio tutti i detenuti», spiega il numero uno del Sappe.
Una situazione drammatica i cui effetti ricadono anche sugli agenti, vittime della sindrome del burnout, vale a dire dell’operatore “bruciato”. Da gennaio a oggi 7 agenti di polizia penitenziaria si sono tolti la vita. Sempre secondo l’Eurispes, oltre 100 poliziotti penitenziari hanno deciso di farla finita negli ultimi dieci anni. «Troppo spesso», scrivono i ricercatori, «gli osservatori tendono a trascurare il ruolo e le problematiche connesse agli operatori di giustizia, che popolano, ancor prima di gestire, gli Istituti di pena: un’intera comunità che, per necessità o per scelta, condivide la propria quotidianità con i detenuti: gli oltre 40.000 agenti di custodia». Sulla stessa lunghezza d’onda è il sindacato. «Il lavoro che fa la polizia penitenziaria è un lavoro già di per sé difficile e stressante. Se a questo aggiungiamo il sovraffollamento, significa che un agente deve vigilare anche 80 detenuti. Siamo l’ultimo baluardo e su di noi ricadono tutti gli stress che si accumulano durante il servizio», commenta Capace.
Numeri che hanno messo in allarme il Ministero della Giustizia. L’Amministrazione Penitenziaria da tempo ha affrontato, seppure con metodologie diverse, il tema del benessere del personale. Sono stati attivati laboratori, corsi di formazione sull’argomento, centri di ascolto e, recentemente, è stata proposta l’istituzione di un numero verde e di un servizio di help line a livello nazionale dedicato agli operatori penitenziari. «È una gran cavolata», tuona Capece. «Nessuno mai telefonerà. Qualcuno forse vuol mettersi a posto la coscienza con questa trovata che non serve a niente. Il problema è che devono cambiare il sistema penitenziario. Soprattutto, non si può far morire di lavoro gli agenti», prosegue il sindacalista. Secondo dati della Uil penitenziaria in 10 anni, a fronte di un incremento della popolazione carceraria pari a circa il 51%, si è registrata la contrazione degli operatori penitenziari pari al 9%. «Dall’analisi delle ricorrenze dei principali eventi critici», osserva l’Eurispes, «appare evidente la correlazione esistente fra questi e la carenza di personale effettivo assegnato al distretto regionale di riferimento». L’istituto di ricerca, a tal proposito, ha preso in esame anche i dati elaborati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sul comportamento autolesionistico, di cui il suicidio rappresenta la più estrema espressione. Solo nel 2010 si sono verificati ben 5.703 episodi di autolesionismo e 1.137 casi di tentato suicidio.
Ma chi sono i detenuti che più spesso provano a farsi male fino a togliersi la vita? Il tasso più elevato degli episodi di autolesionismo si registra tra la popolazione carceraria straniera (14,84%) e, in particolare, tra quella di sesso maschile (15,35%). Nel caso dei detenuti italiani sono invece le donne a presentare un tasso più elevato (11,36%). Idem per i tentati suicidi: le maggiori frequenze si contano tra la popolazione italiana femminile (2,41%) e tra quella straniera maschile (2,13%). I detenuti in attesa di giudizio, altro dato, presentano un tasso di suicidi più elevato rispetto ai condannati (0,09% contro 0,07%). Un dato, commenta l’Eurispes, che sembra indicare come «nella risoluzione individuale a togliersi la vita, l’impatto con il carcere abbia in sé un ruolo determinante, a prescindere dalla durata della pena inflitta». La conferma indiretta si ricava da un focus sui tempi del suicidio carcerario, realizzato sull’arco di tempo compreso tra il 1987 e il 2008. Lo studio evidenzia infatti che nel 34% dei casi il suicidio avviene entro il primo mese di reclusione e nel 28% addirittura entro la prima settimana di permanenza in carcere (Il carcere: del suicidio ed altre fughe, 2009).
È tuttavia tra la popolazione degli ospedali psichiatrici giudiziari che si riscontrano in assoluto i maggiori tassi di suicidi, tentati suicidi, atti di autolesionismo e persino di decessi per cause naturali. L’Eurispes fa il punto anche sui detenuti morti dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane. Sono 93. Di questi, 33 si sono suicidati. Solo nel mese di luglio i decessi in cella sono stati 18, 10 dei quali per suicidio. La soluzione è l’amnistia proposta dai Radicali? «Siamo favorevoli a qualsiasi strumento che tenda a deflazionare il sistema. L’amnistia va bene ma ho l’impressione che i radicali debbano fare i conti con il Parlamento che non è di quell’avviso. Noi invece chiediamo più misure alternative come negli altri Paesi europei», conclude Capace.
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