Welfare

Senza mediatrice, quella cinese avrebbe abortito

Oggi e domani in Bocconi si parla di migranti e salute

di Sara De Carli

C’è un colloquio che Graziella Sacchetti ricorda come se fosse accaduto ieri. Una ragazza cinese, appena arrivata da noi, che non parlava una parola d’italiano, accompagnata dalla sorella che faceva da interprete, chiedeva un certificato per interrompere una gravidanza frutto di un abuso. Alla fine si scoprì che la ragazza non era stata violentata, che il bambino era del suo ragazzo, e che loro il bambino lo volevano. Era la famiglia di lei che invece quel compagno, per la figlia, non lo volevano. Quel giorno Graziella Sacchetti, ginecologa esperta, capì che continuare a lavorare senza un mediatore linguistico culturale era impossibile.

LA SALUTE DEI MIGRANTI  – Graziella Sacchetti oggi è un medico con alle spalle più di trent’anni nelle sale parto di un grande ospedale milanese, il San Paolo, è membro del consiglio di presidenza della Società italiana di medicina delle migrazioni e anche in pensione continua a fare la volontaria al Centro di salute e di ascolto per donne immigrate e i loro bambini dell’Ospedale San Paolo, che lei stessa ha contribuito a creare a ha poi diretto.

A metà degli anni 90 è stata tra i soci fondatori dell’associazione Crinali, oggi cooperativa, una delle prime realtà nate in Italia per formare mediatori linguistico culturali. «Che non sono semplici interpreti», precisa: «se si parla di mediazione è perché c’è un possibile conflitto, una difficoltà a comprendersi, non solo una barriera linguistica. Il mediatore è una persona, non un vocabolario!». La dottoressa Sacchetti sarà tra i relatori che da domani, a Milano, prenderanno parte alla quarta Conferenza sulla salute dei migranti e delle minoranze etniche in Europa, organizzato da Eupha e Università Bocconi, con il motto “Facts beyond Figures. Communi-Care for Migrants”.

 

MEDIATRICI, NON VOCABOLARI – «Siamo partiti da un bisogno nostro, come operatori», racconta Sacchetti. «Avevamo bisogno di qualcuno che ci aiutasse sul piano linguistico e culturale, così abbiamo fatto dei corsi per formare le prime mediatrici linguistico culturali, con un tirocinio in ospedale. Tempo poche settimane e in maniera spontanea tutte le utenti di lingua araba hanno iniziato a concentrarsi tutte nel pomeriggio in cui era presente la mediatrice araba», ricorda.

 

PRIMA LE DONNE – La scelta delle donne non è casuale: «molte donne, soprattutto quelle provenienti dal Maghreb, arrivano qui per un ricongiungimento famigliare, spesso hanno subito il primo figlio o addirittura arrivano proprio per partorire, ma qui si trovano assolutamente sole, con un marito che lavora fuori tutto il giorno e senza quella comunità femminile di riferimento che tanto è importante nel primo periodo dopo il parto. La presenza di personale femminile aiuta a non rompere con il modello da cui provengono». Altro tratto caratterizzante è il fatto che si è privilegiato formare stranieri: «Fa differenza il fatto che anche il mediatore abbia fatto il percorso migratorio e lo abbia metabolizzato».

 

SALUTE MA NON SOLO – Quell’idea iniziale si rivelò un successo, con dei mediatori che turnavano su alcuni giorni alla settimana, ogni giorno una lingua e un’utenza specifica a cui dedicarsi: cinesi, arabe, romene, rom, filippine. Dagli altri reparti cominciano a chiamare le mediatrici dell’ostetricia. Gli ospedali con un centro di salute e di ascolto per le donne immigrate e i loro bambini divennero presto due.

«Abbiamo puntato sulla multidisciplinarietà, perché quando una donna straniera pone una richiesta sanitaria quello che porta non è solo un bisogno sanitario, ma si porta dietro altri bisogni. Questo è “strano” per l’ospedale. Anche noi dobbiamo abituarci a parlare anche d’altro, a fare un’offerta attiva. Così abbiamo creato un centro di ascolto con accesso libero, con una ginecologa, un pediatra, un’ostetrica, un’assistente sociale, una psicologa e la mediatrice che accompagna tutti questi», spiega Sacchetti. Nel 2005 il progetto sperimentale diventa un servizio stabile, con l’ospedale che dietro gara appalta la gestione del centro. Oggi ci passano 500 nuove donne all’anno e 600 bambini.

 

UN COSTO O UN RISPARMIO? – «Bastano 130mila euro l’anno, non è una follia. È un servizio in più, che ha un costo, ma abbiamo visto che in realtà questo porta a una economizzazione delle prestazioni sanitarie». Grazie al centro, gli accessi impropri al pronto soccorso si riducono infatti quasi di un terzo. E oltre al centro, le mediatrici vanno anche in corsia, con altri progetti di sostegno: al San Paolo hanno scelto di puntare molto sul post-partum, con una psicologa e una mediatrice che passano camera per camera a scambiare qualche battuta con tutte le neo-mamme, dare informazioni sui servizi e cogliere i primi segnali di un rischio di depressione post-partum, sempre più frequente tra le straniere. Al San Carlo invece hanno puntato sulla prevenzione dell’aborto ripetuto: nel 2005 solo il 15% delle donne straniere tornava per la visita post-IVG, oggi siamo già saliti al 40%.

 

UN GHETTO DORATO? – Un servizio dedicato, molto apprezzato da utenti e operatori. Tutto bene? Ma non c’è il rischio che si crei un mondo parallelo e che, per altro verso, il servizio pubblico non si decida mai ad essere in grado in prima persona di curare e seguire un paziente con una cultura diversa? «Il rischio sulla carta c’è», replica Sacchetti, «ma dipende dal modo in cui imposti il servizio, se vuoi la sua sussistenza eterna o se lo fai nascere con l’obiettivo di farlo scomparire. Noi cerchiamo di contaminare tutto il resto dell’ospedale, facciamo formazione aperta a tutti gli operatori sanitari per dare strumenti al resto degli operatori. Credo che la formazione sia l’unica via possibile. E d’altra parte stimoliamo il percorso di autonomia degli stranieri: dopo il parto invitiamo le donne ad andare ai consultori, non a tornare da noi».


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