Volontariato

Luca Doninelli: «VITA, un giornale che racconta l’esperienza»

La riflessione dello scrittore sulla "nascita" del nuovo mensile

di Redazione

di Luca Doninelli

Chiedermi cosa mi aspetto da Vita significa chiedermi cosa mi aspetto da me stesso, qual è quel “di più” di cui sento la mancanza nella mia vita di persona determinata a non farsi braccare dai luoghi comuni e dal dilagante servilismo intellettuale. In questi ultimi vent’anni molte cose sono peggiorate nel mio lavoro, ma molte sono anche migliorate. Questa sarebbe una banalità, se non fosse interessante vedere in che cosa sono peggiorate e in che cosa, invece, sono migliorate. Il manifestarsi del peggioramento e quello del miglioramento presentano infatti stili completamente diversi.

È peggiorato sensibilmente il lavoro ordinario. Scrivere articoli di giornale per esempio è diventato per me sempre più difficile e sempre meno gratificante, anche se non inutile. I giornali hanno sempre più bisogno di articolisti schierati con la linea – politica o culturale – della testata, o comunque di esercitare su di loro una qualche forma di controllo. La libertà di espressione e il libero confronto delle idee sono rispettati solo formalmente, su argomenti marginali. Pochi sono i veri coraggiosi, molti coloro che fingono coraggio, ma è solo un gioco: quasi tutti, nel tempo presente, sono gli uomini di qualcuno.

Questo non significa che stiamo diventando tutti cinici, stupidi o cattivi. La mia esperienza ha molti aspetti positivi. I luoghi di lavoro sono teatro di una sofferenza comune, e l’impressione generale, più che di un giro di vite, è quella di una solitudine generale. I grandi attori sulla scena appaiono sempre più soli, come antichi duellanti: non è più il tempo delle grandi alleanze, e chi vuol vincere deve poter contare solo su di sé. Normale, dunque, che si stringano i ranghi e che l’impressione – peraltro generale – di un assottigliarsi dei margini di libertà si faccia più forte.
Ma esistono anche segnali positivi: molti e importanti. E Vita è condannata, direi, ad accoglierli. Il carattere di Vita, la sua vera forza è sempre stata culturale, fin dall’inizio: prendere i temi prodotti dall’esperienza di tutto un mondo, il cosiddetto “sociale” per portarli all’attenzione di tutti.

L’intuizione iniziale, secondo me abbastanza profetica, fu che i diversi processi che stavano interessando l’intero pianeta – dalla globalizzazione alla finanziarizzazione dell’economia fino alla rivoluzione mediatica – avrebbe potuto sviluppare una terribile forza disgregativa se alcuni valori propri del “sociale”, primo fra tutti il valore del dono, non fossero diventati valori condivisi da tutta la società.

Ciò che è più interessante è che intorno al giornale e all’esperienza che i suoi protagonisti mettevano in atto si è costituita un’area culturale definita non tanto dall’omogeneità ideologica quanto dalla necessità dello scambio e del confronto e, di più ancora, dell’ascolto. La scoperta che altre persone, disperse nel mondo, si stavano interrogando sugli stessi temi sui quali Vita e i suoi amici si interrogavano, magari giungendo a conclusioni diverse, ma ugualmente disponibili a gettare le loro conclusioni nell’agone della riflessione (solo il continuo rilancio del pensiero, più che il pensiero in sé, ci aiuta a combattere l’invadenza del potere), ha costituito in questi anni un’esperienza molto gratificante.

Questa disposizione è tutto ciò che può accomunare un Marco Revelli, un Giulio Sapelli o un Silvano Petrosino, o un Aldo Bonomi. Non si tratta – anche questo è significativo – in primis di collaboratori, ma di compagni di strada. Come lo sono diventati, imprevedibilmente, Aldo Giovanni e Giacomo. O come lo è diventato, in modo sempre più partecipe, Mauro Magatti.
Io credo molto nella forza contagiosa di questi rapporti, nati dalla semplice esigenza di tenere viva, mediante un rapporto concreto, la verità della propria esperienza che rischia di perdersi nei ricordi del passato. E immagino il giorno in cui esperienze anche molto diverse da quella di Vita (quel che resta del mondo comunista, per esempio) avranno la necessità di rimettere in gioco presente e passato in un ambito come il nostro.

Il valore su cui Vita propone un confronto serrato a tutti coloro che lo accettino è il valore della gratuità, del dono inteso non soltanto come “dono” di una parte del proprio tempo per le opere sociali, ma anche come dimensione essenziale del fare umano, come contenuto – ben più che un semplice “valore aggiunto” – non eliminabile di qualsiasi azione umana, come termine non-economizzabile che, al tempo stesso, sta alla base della definizione stessa dell’economia e del lavoro. Per esempio, che un lavoro sia ben fatto (fattore economico estremamente importante) non è definibile in termini economici, così come il lavoro può essere quantificato in ore lavorative o in resa produttiva ma non nell’intensità dell’impegno umano che, tuttavia, sta alla sua origine.  

Ora si apre un nuovo capitolo della storia di Vita, che già nel corso degli anni aveva affiancato al settimanale cartaceo una ricchissima serie di attività, che abbracciano gli aspetti più diversi del fare sociale, dal sostegno sui grandi temi civili a una lettura di matrice etica dei fenomeni finanziari fino all’organizzazione e alla promozione di mostre d’arte indirizzate soprattutto ai giovani, che sono – occorre dirlo e ripeterlo – la parte più ingiustamente umiliata della nostra società.

Con la nascita del mensile, significativamente a diciott’anni dalla sua prima ideazione, “Vita” porta a maturazione tutto questo fermento, dandogli una forma nuova, più adulta, più consapevole, ma non – Dio ci scampi! – definitiva, perché la vita è più grande di qualsiasi forma, per quanto bella.


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