Non profit

Il non profit fa occupazione: oltre 160mila posti in dieci anni

di Sara De Carli

Secondo Unioncamere, che ha appena presentato il suo Rapporto 2012, quest’anno si bruceranno in Italia altri 130mila posti di lavoro, con l’occupazione dipendente che calerà di un ulteriore 1,1%. E il Dpef firmato da Mario Monti, per dirla con Carlo Dell’Aringa, che insegna Economia politica all’Università Cattolica di Milano, «prevede sì una piccola ripresa nel 2013, ma non abbastanza per creare nuova occupazione. Forse basterà per recuperare i posti perduti». Eppure in un mercato del lavoro sempre più fosco, c’è un segmento che va controcorrente. O meglio, che è «anticiclico». Tanto da far dire a Dell’Aringa che certo, «il terzo settore potrebbe giocare un ruolo importante facendo da leva per quelle risorse pubbliche che invece da sole e usate direttamente sarebbero sempre insufficienti».

+33% di occupati
Il non profit nel 2011 impiegava 650mila lavoratori retribuiti, ben il 33% in più dei 488mila contati dall’Istat nel 2001. Sono i numeri presentati nella recentissima Ricerca sul valore economico del terzo settore di UniCredit Foundation. Rispetto al 2008, nei tre anni della crisi, il 7,4% delle organizzazioni ha aumentato il proprio personale retribuito e l’88,6% lo ha mantenuto stabile. Il dato trova conferma nelle previsioni per il 2012: il 96,2% delle organizzazioni non profit aumenterà o manterrà stabili i propri occupati. Per Giuseppe Ambrosio, che ha coordinato la ricerca, le ragioni sono due: «Il primo, l’aumento dei bisogni collegati al benessere: il terzo settore non è più solo il soggetto che risponde ai bisogni della marginalità, tant’è che il 78% delle organizzazioni eroga servizi a categorie non svantaggiate». L’altro motivo è l’espulsione di lavoratori da altri segmenti di mercato, con un terzo settore che però non incamera passivamente le risorse espulse ma «inventa percorsi di riqualificazione». Non per nulla il 65% delle imprese sociali nel 2011 ha fatto formazione ai propri dipendenti, contro il 33,5% della media nazionale.

56,7% personale dipendente (stabile)
Il terzo settore vive spesso di progetti, ma in realtà il 56,7% del personale retribuito ha un contratto dipendente, con i contratti a tempo indeterminato che arrivano al 48%. Ampissima, come è ovvio, la forbice tra le organizzazioni produttive e quelle che fanno advocacy: nelle prime i contratti dipendenti superano l’81%, nelle seconde oltrepassano appena il 52%. Anche qui però è sorprendente il comportamento delle organizzazioni non profit in questi anni di crisi: dal 2008 al 2011 il 16,7% delle collaborazioni sono state tramutate in contratti dipendenti e il 67% rinnovate. Nel non profit cioè il contratto di collaborazione si rivela un’efficace forma di ingresso. Lo conferma anche Ivan Guizzardi, segretario generale di Felsa Cisl, il sindacato degli atipici: «Il 16% di collaborazioni trasformate in contratti da lavoro dipendente è sopra la media del profit. Quello che serve ora, però, è una scelta più attenta alla forma di contratto, preferendo il contratto di apprendistato al progetto per gli ingressi che vanno verso il lavoro subordinato». In effetti oggi l’apprendistato nel non profit si ferma al 3%, contro una media nazionale del 12%.

62,3% donne
31 donne ogni 17 uomini. Quanto alla presenza di donne che lavorano, il terzo settore è praticamente un mondo alla rovescia. Nel non profit le donne sono in media il 62,3% della forza lavoro, con una presenza fortissima in particolare nelle cooperative sociali. «Ma sempre più spesso troviamo donne nella dirigenza e attive in nuovi settori, come l’ambiente», spiega Claudia Gatta, vicepresidente della commissione nazionale Dirigenti cooperatrici di Confcooperative. «È effetto del fatto che le donne ormai si orientano su altri tipi di studi». E sarà sempre più così, visto che sono proprio le donne ad avere i titoli di studio più alti e che il non profit ormai impiega per il 45,2% persone laureate. A spiegare questo dato esemplare c’è anche la grande capacità di costruire buone pratiche di conciliazione, seppure ancora in maniera informale. Gatta presenterà a giugno i risultati del progetto triennale “Famiglia impresa lavoro”, che ha rilevato i bisogni e le buone pratiche sul tema conciliazione. «Proprio le organizzazioni non profit hanno fatto ampio ricorso alla legge 53», spiega, «e quelle sperimentazioni hanno cambiato la cultura».

Migliaia di inserimenti
Essendoci le cooperative sociali di tipo B, che il non profit più del profit dia lavoro a persone svantaggiate è un’ovvietà. Però i numeri fanno riflettere: in una organizzazione non profit lavorano in media 6 lavoratori svantaggiati. Il dato sale a 9 nelle realtà produttive e a 14 nelle cooperative sociali di tipo B. «In Federsolidarietà lavorano 15mila persone cerfiticate: disabili, detenuti, malati psichiatrici, tossicodipendenti», dice il presidente Giuseppe Guerini. «Ma negli ultimi anni ne abbiamo assunti altrettanti che non hanno un certificato ma che di fatto sono lavoratori svantaggiati, come persone uscite dal lavoro dopo i cinquant’anni, che nessuno più assumeva… In questo senso la cooperazione ha la capacità di offrire uno sbocco occupazionale di pregio a persone che altrimenti graverebbero su un welfare già al collasso».


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