Non profit

Dagli Stati Uniti alla Grecia è iniziata l’era della freeconomy

di Mattia Schieppati

Nessun economista ci ha ancora vinto un Nobel. Ma esiste una relazione tra crisi economica, teoria della decrescita e primaverile cambio degli armadi. Ovvero quel momento dell’anno in cui si fanno i conti con i tanti, troppi beni di consumo accumulati in modo compulsivo, la loro sostanziale inutilità, e il bivio ideologico: buttare o trovare il modo per rimetterli in circolo? Se ridotto al livello casalingo si tratta tutt’al più di trovare uno sbocco dignitoso a un cappotto e a due paia di scarpe, portato su scala economica allargata ? gli invenduti delle imprese, gli stock di magazzino, la possibilità di fornire servizi in unperiodo in cui la domanda dei mercati è zero ma le spese fisse esistono comunque ?, le merci e i servizi che possono essere rimessi in un circolo virtuoso di consumi hanno un peso importante. Tanto da alimentare un’economia senza moneta, fatta di scambio merce-su-merce o merce-su-servizio, che, con la crisi di liquidità in corso, spalanca scenari suggestivi.

Negli Usa un business da 12 miliardi
Nei soli Stati Uniti il barter market secondo l’International Reciprocal Trade Association, l’organizzazione degli “operatori del baratto” statunitensi, ha fatto registrare nel 2011 un giro d’affari per un controvalore di 12 miliardi di dollari. Centinaia di migliaia di scambi tra “venditori” e “acquirenti” senza che nessuno abbia mai tirato fuori di tasca un dollaro. «Il bartering è diventato uno strumento chiave per le aziende che vogliono mantenere quote di mercato, o addirittura crescere, ma non hanno a disposizione capitali cash da investire», spiega Scott Whitmer, fondatore di Florida Barter, una delle principali realtà Usa che opera da intermediaria nel baratto, con 17 milioni di dollari di fatturato 2011 in scambi e oltre 1.600 clienti. «La forza di questa formula sta nella certezza della contropartita che si mette sul mercato: i trade dollars, la moneta virtuale che noi usiamo per regolare gli scambi, ha un corrispettivo diretto in beni e servizi, non dipende ? come il dollaro “vero” ? dalle oscillazioni impazzite del mercato. È quella certezza di valore che prima era garantita dallo standard del prezzo dell’oro. Perso quell’aggancio, si è entrati nell’arbitrio». Il lavoro dell’imbianchino che si mette a disposizione per imbiancarmi una camera in cambio ? per esempio ? di un set completo per campeggio, o di una lezione di inglese ha un valore certo. Molto più chiaro e diretto del valore di un punto di spread.

Dalla Silicon Valley a Patrasso
Quella che negli Usa è ormai una formula consolidata di business, e ha trovato nella piazza virtuale del web lo strumento chiave per uno sviluppo prodigioso (l’ultimo fenomeno viene dalla Silicon Valley, si chiama Swap.com, intermedia baratti tra privati online e in un anno di attività ha macinato 13 milioni di euro di utili), in Grecia si sta consolidando come un’economia di sopravvivenza che anima le piazze reali delle città. È dalla fine del 2010 che ad Atene, Salonicco, Patrasso e nei centri minori dell’interno sono nati, e si sono via via strutturati, mercati settimanali del baratto. «Qui la gente acquisisce col baratto i generi di prima necessità, dagli alimentari all’abbigliamento ai piccoli servizi ? l’idraulico, l’imbianchino…, perché così i pochi euro che ancora ha in tasca li tiene da parte per le spese impreviste, come le spese sanitarie, per esempio», spiega Leonidas Chrysanthopoulos dell’associazione “Economia Amica”, che organizza ogni sabato il mercato del baratto a Aigion, presso Patrasso.
Ma il fatto che la massacrata Grecia si sia posta in qualche modo all’avanguardia in questo tipo di formula non deve far pensare che il baratto rappresenti l’ultima spiaggia di un’economia nel baratro. In Spagna la formula delle boutique del baratto attraggono sempre più clienti: negozi fisici, con l’inevitabile vetrina e marketplace virtuali sul web, che intermediano solo merci usate, dall’abbigliamento all’elettrodomestico, facendo solo da regolatori per scambi tra privati (in questo caso chi vuole avere accesso al network di scambio paga una quota di iscrizione), oppure tra aziende e privati (l’operatore trattiene in questo caso una percentuale sul controvalore della transazione).
In Francia cresce il fenomeno delle “Reti di scambio locale” nella loro formula più avanzata, i Rers (“Reti di scambio reciproco dei saperi”), dove ad essere barattate non sono merci e prodotti ma conoscenze o abilità specifiche: a “Le Patchwork des Savoirs”, nel cuore del XVIII arrondissment, si scambiano ricette di cucina con lezioni di giardinaggio, corsi di pianoforte con consulenze fiscali. “Cose” cui non è facile dare un valore monetario, e soprattutto tutte utilities che costituiscono per le famiglie in difficoltà beni accessori e sacrificabili, se dovessero pesare sul bilancio di fine mese.

Economisti vs sociologi
Sulla sostenibilità di un sistema economico basato su queste formule, le interpretazioni divergono. Se questa prospettiva affascina i sociologi, incontra tra gli economisti un certo scetticismo. «Il fenomeno dello scambio libero, soprattutto di quello tra beni che è difficile misurare e che deve basarsi sulle relazioni personali, è la prova dell’incapacità dell’economia monetaria di risolvere da sola i suoi problemi», sintetizza l’antropologo Mark Anspach, che teorizza la filosofia dello scambio nel saggio A buon rendere (ed. Bollati Boringhieri). Ma anche, come osserva il sociologo Guido Viale (autore de La civiltà del riuso, Feltrinelli), «gli oggetti non sono solo il loro valore, il loro prezzo; sono anche la creatività, la fatica e le attenzioni che hanno contribuito a produrli, e la cura di cui sono stati circondati durante la loro vita. Il loro riuso è il modo in cui il consorzio sociale, o amicale, o famigliare, raccoglie e

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