Formazione

Il bene secondo Jahvé?E’la salvezza per tutti

«Per gli ebrei la solidarietà non fatta a loro uso e consumo, come si è soliti credere, ma riguarda tutti», dice il rabbino capo di Milano. E Nedo Fiano, sopravvissuto ai lager aggiunge: «Solo il d

di Walter Mariotti

«Per un ebreo la solidarietà è tutto. Non solo la carità, l?elemosina o l?aiuto ma proprio il dare, il darsi. Donarsi all?altro è ciò che rende uomini, e gli ebrei lo sanno fin troppo bene. L?ebreo sa che se dà diventa più forte, sa che solo in questo modo può cambiare la propria vita. Solo così infatti la sua esistenza si avvicina a Dio». Nedo Fiano è un signore elegante dall?eloquio forbito e i capelli ondulati, un piccolo mare di cavalloni bianchi come nelle statue immortali di Segesta e Capo Sunion. Mi fissa nella penombra dello studio in cui infine riusciamo ad incontrarci, con uno sguardo che supera l?eccitazione e scioglie il grumo delle domande che accompagnano questo viaggio nella religione di Mosè. Alla scoperta di una solidarietà su cui si dicono troppe cose ma di cui, invece, non si sa quasi niente. A tredici anni Fiano scoprì la persecuzione e la deportazione nei lager nazisti, vide morire suo padre e sua madre – «Abbracciami per l?ultima volta Nedo, non ci vedremo più» – e sopportò il ritorno a Firenze, la sua città. Trovandola irrespirabile, disgustosa, angosciante come una camera a gas. «La vede questa fotografia? È la mia classe, la mia seconda media al tempo delle leggi razziali. Nessuno di loro mi disse ?Dai, Nedo, non ti preoccupare: non possiamo più andare a scuola insieme, ma giocheremo insieme lo stesso?. Nessuno. Cinquant?anni dopo sa cosa ho fatto? Un grande pranzo e li ho invitati tutti. Sorridendo». Per un ebreo questo non è perdono, ma solidarietà: il rimanere fedeli a se stessi qualunque cosa accada. Fiano così è riuscito a rimanere Nedo nonostante l?orrore, a restare il bambino che dava i calci ad un pallone di pezza ridendo nell?afa dei pomeriggi di San Frediano. La solidarietà fra ebrei è un prodotto dello stato sociale degli ebrei, della loro esperienza millenaria di ghettizzazione che produsse l?effetto contrario: cementare i legami dei figli di Abramo, membri di una famiglia su cui si può sempre contare, la famiglia che si riconosce nella Torah, la Bibbia del popolo di Israele. Ma, come ricorda il professor Giuseppe Laras, ordinario di storia della filosofia e rabbino capo della comunità ebraica di Milano, «la solidarietà fra ebrei non può essere confusa con la solidarietà degli ebrei. Anzi: per gli ebrei la solidarietà non è fatta a loro uso e consumo esclusivo per due motivi: perché l?ebraismo è l?unica religione che prevede la salvezza anche per chi non segue il suo credo. E perché il messaggio dell?ebraismo è il messianesimo, un?aspettativa che si proietta in una prospettiva di salvezza universale». Laras è un uomo alto, pieno d?energia e vestito tradizionalmente di scuro. Riceve con il capo coperto in una stanza austera dove ovunque sono quadri in aramaico. «La religiosità ebraica obbliga alla solidarietà: all?aiuto materiale e spirituale come la visita ai malati e la sepoltura degli altri. Non solo gli altri ebrei però, ma anche e soprattutto i non ebrei». Se quindi il particolarismo ebraico riguarda il rapporto personale con Dio, «esso non si esaurisce nel soggettivismo ma investe tutta l?umanità, che alla fine della storia si riconoscerà in un unico Dio e in un rapporto di fratellanza, essendo cresciuta per tutti la dimensione messianica». L?ebraismo infatti considera tutta l?umanità come il prodotto di Dio, scintilla divina o «marchio di fabbrica», come dice Laras, quello che distingue l?uomo dall?animale. Un ecumenismo «che rappresenta il patrimonio genetico del popolo di Israele, la cui unica differenza dagli altri è soltanto una singolare esperienza religiosa imposta da Dio. Sempre e comunque però in una prospettiva universale, anche perché la religione ebraica e l?unica che prevede la salvezza anche per chi non è ebreo». I precetti che gli ebrei devono seguire sono quelli che li qualificano come tali – il rispetto del sabato, il cibo kosher, eccetera – ma all?interno della Torah ci sono anche precetti per chi ebreo non è. «Quelli noachidi per esempio, cioè quelli derivati da Noè: come l?essere onesti, il comportarsi correttamente: che tutti gli ebrei poi non li osservino non dipende dalla religione. In ogni modo, al di là del livello di osservanza la coscienza dell?ebraicità pervade tutti gli ebrei, la consapevolezza cioè di vivere un?esperienza particolarissima. Un?esperienza singolare che però non ha mai distolto l?ebreo dall?universalità, dal contesto mondano. Basta pensare che nella nostra religione non ci sono esperienze isolazioniste come quelle monastiche, salvo una: quella degli Esseni, ripresa e moltiplicata dal Cristianesimo». Alla fine del viaggio la solidarietà ebraica è più illuminata, e un aspetto brilla: l?anonimato. «Chi aiuta, chi da soldi, chi presta il proprio tempo per una causa o un malato non deve rivelarlo mai. Pena l’annullamento». Parola di Raffaello Fellah, un sefardita vittima delle leggi di nazionalizzazione libiche che arrivato in Italia è divenuto uno dei punti di riferimento della comunità ebraica, musulmana e cristiana. Fellah sta andando in Sicilia per un convegno ebraico, ma trova il tempo per parlare. Insieme a Giulio Andreotti e alla figlia di Sadat ha fondato ?Il Trialogo?, un?associazione per il dialogo fra le tre grandi religioni monoteiste. «Il viaggio del Papa è un?evento straordinario, incredibile, che la nostra associazione auspicava da sempre. Difendere i patrimoni religiosi di ciascun paese riscoprendo i valori fondamentali ed etici comuni alle tre religioni monoteiste. Che potrebbero benissimo essere indicate con una parola: solidarietà».


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