Cinquantenne ragazzina, Francesca Pasinelli, chiamata da Luca Cordero di Montezemolo al ruolo di direttore generale di Telethon nel luglio 2009, compirà tra poco i suoi primi 15 anni nella fondazione: direttore scientifico prima, dal 1997 al 2008, poi membro del Consiglio di amministrazione.
Capire con lei le trasformazioni e le nuove sfide di Telethon significa capire trasformazioni e sfide di una fetta importante del non profit italiano, quella dedicata alla ricerca scientifica, e in ultima analisi una fetta importante della ricerca in questo Paese.
Su che rotta si sta muovendo Telethon?
Per Telethon i grandi cambiamenti sono già avvenuti: con il cambio di governance e il passaggio della presidenza a Montezemolo, ma soprattutto nella strategia nella raccolta fondi che oggi combina la raccolta fondi vera e propria all’acquisizione di fondi industriali che garantiscano la messa in sicurezza dei programmi di ricerca in stato più avanzato. Abbiamo fatto un piano strategico che va in questa direzione, negli anni a venire cresceremo su due linee: i nostri tipici progetti di ricerca che rappresentano la semina, poi, una volta che questa semina ha dato frutti, con ulteriori fondi facciamo in modo di arrivare sino alle terapie possibili, perché con i progetti di ricerca di base noi miriamo ad individuare le possibili strategie terapeutiche. Ma la grande differenza tra una strategia terapeutica individuata e una cura messa a punto è tutta una fase di sviluppo che viene fatta in condizioni non tipiche della ricerca accademica. Occorre un contributo industriale.
Sono pronte le aziende a dare questo contrributo?
Un anno mezzo fa, quando abbiamo firmato il contratto con GSK, abbiamo capito che questa è una strada percorribile nonostante il mercato poco interessante che noi rappresentiamo per l’industria, e ci stiamo rendendo conto che è una strada che può continuare e crescere. Abbiamo una serie di altri contratti con partner industriali che ci confortano sul fatto che alla fine saremo nelle condizioni di arrivare a un risultato non solo scientifico, ma tangibile e concreto per i pazienti. A Napoli, per esempio, abbiamo già definito la partnership con Biomarine. Negli anni abbiamo capito che con il nostro sistema di ricerca stiamo diventando degli interlocutori credibili e stiamo dimostrando, anche a chi ha donato denaro, che in Italia è possibile fare investimenti su scala industriale. Anche le multinazionali farmaceutiche internazionali, che stanno disinvestendo in strutture proprie in Italia, sono ben felici di allearsi con strutture accademiche di livello anche là dove non intravedono grossi ritorni sugli investimenti.
Quanto investite sulla ricerca?
Il 2011 ? ultimo bilancio chiuso ? è stato confermato con un investimento di 28,5 milioni di euro in progetti di ricerca sulle malattie genetiche rare, il 9% in più rispetto all’anno precedente. Uno sforzo incredibile in questo periodo di crisi. In questo momento, grazie ai fondi che abbiamo raccolto stanno lavorando in Italia 366 laboratori.
Per 2012 il tema della raccolta fondi diventa fondamentale in epoca di scarsità di risorse. Come vi state attrezzando?
Stiamo subendo anche noi le sofferenza del periodo. Noi raccogliamo fondi principalmente attraverso un modello classico, che è quello della maratona televisiva. E sentiamo anche la crisi della tv, con la diminuzione degli ascolti che si traduce con una flessione nella raccolta di fondi. Non forte ma reale. Anche sul fronte delle aziende sentiamo il taglio pesante dei budget. Nel nostro caso c’è un tentativo di andare verso un pubblico per noi atipico, non più televisivo. Stiamo cominciando a partecipare a diverse mini-maratone, una formula interessante per coinvolgere un pubblico più giovane e maschile. Per questo stiamo lanciando “Walk of live”, otto mini-maratone nelle principali città italiane (vedi box in questa pagina), un nuovo evento di raccolta fondi che avrà come slogan “Il destino della ricerca è nei tuoi piedi”.
Il non profit affida le proprie organizzazioni sempre più a fundraiser e alle tecniche face-to face mettendo in campo anche grandi investimenti. Questo può cambiare i connotati identitari del terzo settore italiano?
Pur nella consapevolezza che per ogni nuova iniziativa proposta c’è un costo che pesa sulla raccolta percentualmente di più nei primi anni ? si parte da circa il 50% per arrivare negli anni ad un costo accettabile intorno al 20% ? credo che quello che è doveroso, e che viene spesso dimenticato, è l’essere espliciti, trasparenti con il donatore. Credo che un donatore possa scegliere di fare qualunque cosa, ma quando un ente raccoglie fondi con una campagna pubblica ha il dovere di informarlo di quello che succede. Quindi le campagne face-to-face per l’accensione permanente di rid mi sembra abbiano un costo tale per cui nel primo anno di attività nelle casse della charity entra pochissimo, quasi nulla. Onestamente, pur essendo una persona del settore e capendo le logiche del costo di una campagna, io stessa non donerei volentieri. La sollecitazione che facciamo ai donatori è sempre di “donazione informata”, sia sulle modalità di raccolta che di spesa. Il non profit deve cercare di non sentirsi legittimato dall’intenzione ma dalle modalità con cui investe e dal perseguimento della missione. Dotarsi di sistemi di controllo e misurazione di quello che viene fatto e informare il donatore su questi dati dovrebbe essere obbligatorio. Ed è questo che dovrebbe poi portare alla fidelizzazione dei donatori, oggi in verità un po’ “ballerini”.
La ricerca non profit in Italia come se la passa?
La ricerca scientifica non profit è diventata di vitale importanza per la stessa ricerca italiana. Se è vero che la struttura pubblica continua a pagare la macchina perché paga i salari e i laboratori ? che cominciano però a essere non più adeguati al contesto ? non c’è più benzina, se non quella che viene dal non profit. La ricerca sostenuta dai grandi enti (Airc, Aism, Ail, Aism, eccetera), ha poi la caratteristica di esistere da tanti anni, con continuità e regolarità di bandi emessi. Questa continuità, che dovrebbe essere più tipica dell’investimento governativo, è quella che permette la sopravvivenza della ricerca. Infatti c’è un’aleatorietà totale sui fondi pubblici che non permette quasi più di programmare. Tra due anni parte il nuovo programma di ricerca europea Horizon 2020, con un budget di 80 miliardi di euro, ma l’esperienza italiana col precedente Programma non è stata affatto esemplare: abbiamo contribuito con il 15% di risorse portandone a casa appena l’8,5%.
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