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Richard Sennett: «L’Italia non è un Paese per tecnici»

di Marco Dotti

Quando vengo in Italia e sento fare certi discorsi, non dico per la strada, ma da chi ha avuto la responsabilità di “formare” generazioni di economisti, ha svolto il ruolo di consulente per grandi banche d’affari ? le stesse che, dopo averla provocata, stanno speculando a danno di tutti sulla crisi ? e oggi si è assunto l’onere di guidare il vostro Paese, mi chiedo se per caso io non abbia sbagliato aereo e sia finito altrove». Il giudizio del sociologo americano Richard Sennett sull’Italia, e su chi la sta guidando, non ricorre certo alla diplomazia. E non è una considerazione estemporanea, ma parte da un’analisi storica puntuale. Nella Teoria dei sentimenti morali, pubblicata a Edimburgo nel 1759, fu Adam Smith a rimarcare come, negli affari umani, non potendoci mettere materialmente nei panni dell’altro, occorra far risuonare dentro di noi il suo stato d’animo, provando simpatia per lui. Nel suo ultimo libro, Insieme (Feltrinelli, 2012), Sennett sottolinea l’importanza della “simpatia”, che costituisce una vera e propria pulsione cooperativa. Ecco perché quando arriva in Italia, oggi, pensa di aver «sbagliato aereo»…
Ovunque, oggi le parola d’ordine è «agire rapidamente», «fare in fretta», come se la crisi non avesse tempo per le domande. Bloccando preventivamente ogni dialogo, ogni simpatia…
È un paradosso vedere uomini improntati su schemi contabili oramai fuori tempo massimo. Dopo averci portato allo sbando, si presentano come portatori sani di un’ideologia che, appellandosi al nuovo che avanza, fa in realtà avanzare ciò che di più vecchio e spento permane nel nostro sistema: la competizione come dogma. Se in una società quello che conta fosse solo competere, anche a costo di disfare tutto al fine di arrivare soli alla meta, andremmo diritti verso il baratro. E forse è ciò che stiamo rischiando. Dobbiamo imparare a non volerci imporre, a cooperare, a collaborare, a comunicare nel senso etimologico e forte della parola.
Come?
Dobbiamo smettere di ascoltare chi ci propone formulette magiche, basate su tagli al welfare e soldi alle grandi banche d’affari. Dobbiamo reimparare la virtù dello stare insieme agli altri senza la forzatura di volerci uguali a loro. Torniamo alla competizione e chiediamoci: che cosa succederebbe se durante uno sport competitivo ma di gruppo, prendiamo ad esempio la staffetta, gli atleti della stessa squadra anziché collaborare passandosi il testimone si mettessero a competere uno contro l’altro? Ma qui non siamo alle Olimpiadi, siamo nella vita vera e certe logiche performative hanno portato allo sfacelo non solo le aziende, ma anche la scuola e l’assistenza, sempre più delegata a patetici stregoni del marketing, e hanno confuso la comunicazione con l’informazione.
La tecnocrazia, quindi, non è la soluzione?
L’ideologia del taumaturgo al potere, il tribalismo che divide il bianco dal nero e non contempla zone d’ombra, spazi neutrali, luoghi di dialogo, insomma la logica del self made man che vince sull’ambiente, sui suoi simili… Queste cose hanno fatto il loro tempo, ammesso ne abbiano mai avuto uno, ma permangono nel nostro, di tempo, come schegge pericolose e dannose che dobbiamo sforzarci di estrarre, per sopravvivere.
Il professor Monti non sembra essere di questo avviso, quando chiede più competività.
Competere, competere e ancora competere, si dice. Ma con chi? E quando non avremo più nessuno con cui competere cosa faremo, ci guarderemo allo specchio in cerca di un nemico? Il tribalismo economico è un’anticaglia alla quale voi italiani non siete mai stati troppo devoti. Per fortuna, dico io. Perché la cooperazione e la collaborazione, il lavoro in comune, hanno segnato la vostra storia, la vostra arte, la vostra impresa, il vostro tessuto sociale più di ogni altra cosa. E la modernità è proprio in questo cooperare, in questa pulsione a lavorare assieme che il professor Monti, e la maggior parte dei leader europei con lui, sembra non tenere in debito conto.
Nel cooperare e nel dialogare con gli altri c’è un elemento etico?
È indubbio, ma considerare la cooperazione e il dialogo solo nei loro, inevitabili, risvolti etici rischia di limitarne fortemente la comprensione. La cooperazione è uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme, e in questo sta la sua forza. Cooperare richiede abilità nel comprendere e capacità di rispondere emotivamente agli altri. Non si coopera su un social network, si coopera nella vita e nel lavoro… Oggi, quando si parla dell’Italia si pensa solo al lato oscuro della collaborazione, ossia la collusione. Oppure, se ne parla ? forse siete un po’ voi italiani a cantarvela, attraverso economisti-opinionisti che avete abbeverato alle peggiori retoriche liberiste d’America e che con un provincialismo che fa impressione parlano di “cervelli in fuga”, di “fannulloni” ? come di una sacca di Medioevo, che inchioda l’Italia alle corporazioni, che la frena con la zavorra di giovani che non vogliono andarsene di casa e vecchi che non vogliono morire, che la limita nella crescita con imprese che pretendono di non seguire i dettami del marketing estremo… Siamo messi male, se la pensiamo così. Io credo invece che l’Italia abbia molto da insegnare, proprio in ciò che i promotori del disastro leggono come disvalore. C’è un valore culturale forte nella cooperazione, nell’autoaiuto, nel mutualismo, nella solidarietà informale della famiglia o tra le generazioni. Tutte cose che in Italia hanno una tradizione antica e vitale. Una tradizione che parla però già il linguaggio del nostro futuro. Perché cooperare è il futuro. Il futuro è in questa economia delle relazioni, del dialogo, dello stare e del fare insieme, non nell’ambigua finanza del competere. Non ci si salva da soli, questo spiegatelo a Mario Monti e ai suoi. Se non lo capiscono, non seguiteli.

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