Non profit

Il gioco sporco della pubblicità

di Sara De Carli

Un aggettivo qualitativo? «Delirante». E uno valutativo? «Non è un messaggio onesto: bisogna dirlo che praticamente non ti capiterà mai di vincere». Così Milka Pogliani, uno dei creativi più celebri d’Italia, già presidente dell’Art directors club italiano, boccia il martellamento della pubblicità dei giochi.
Quello del loro aumento esponenziale è un teorema che non ha bisogno di dimostrazione, ma sapere quanto spendono i concessionari per convincerci a giocare è invece «impossibile»: lo ha detto il direttore generale dell’Aams a giugno, rispondendo a una richiesta della commissione Antimafia, spiegando che i concessionari «non sono obbligati a fornire le cifre». L’unico dato ufficiale risale al 2010 e conta 4.015.658 euro di investimenti totali: lo ha citato (fonte Aams) il senatore Luigi Li Gotti nella relazione conclusiva sulle infiltrazioni mafiose nel gioco. Ma nei bilanci consolidati di Sisal e Lottomatica, nel 2010, una mette 29,5 milioni di euro per “pubblicità, fiere e convegni”, l’altra scrive che «i costi di pubblicità passano a 36,3 milioni di euro». Secondo ecogaming.info, Lottomatica e Sisal sono i concessionari che spendono di più in pubblicità: il think tank nella sua analisi conta un totale di 72,3 milioni di euro di investimenti pubblicitari, soprattutto su tv (46%) e internet (25%). Peccato si riferisca al 2009, prima delle liberalizzazioni e del boom della raccolta (era 54,3 miliardi nel 2009, ha sfiorato gli 80 nel 2011). E del boom pubblicitario.

Pubblicità obbligatoria
Il ministro Andrea Riccardi, nei giorni scorsi, ha gettato il sasso nello stagno. Le pubblicità dei giochi, per lui, andrebbero vietate. In realtà è lo Stato stesso che, almeno per i monoconcessionari, impone l’obbligo di fare pubblicità. Per Sisal, spiega Aams, c’è un obbligo di investimento pubblicitario pari all’1,82% della raccolta dell’anno precedente, mentre per Lottomatica ci sono due diversi contratti: lo 0,5% della raccolta più 5 milioni di euro per campagne sociali, per il Gratta e Vinci, e il 7% del guadagno netto dell’anno precedente per il Lotto.
«La pubblicità sul gioco è molto visibile», ammette Massimo Passamonti, presidente della Federazione Sistema Gioco Italia, «ma tra i dieci big spenders in pubblicità non si trova nessun concessionario. Per loro natura linguaggio e pianificazione pubblicitaria devono essere impattanti, ma ciò detto per la federazione qualità e quantità dei messaggi pubblicitari devono essere oggetto di grande attenzione. Non possiamo lanciare messaggi basati sull’illusione di cambiare vita. Il proibizionismo non può risolvere il problema della dipendenza da gioco, anzi rischia di far aumentare l’illegalità, però il tema va affrontato, e oltre alle iniziative già messe in campo da nostri associati, stiamo lavorando per redigere linee guida per campagne sempre più attente a promuovere comportamenti responsabili».

Il rischio addomesticato
Passando dall’economia alla semiotica, quello che attraverso la pubblicità si sta costruendo è un “addomesticamento” del gioco e del rischio. L’obiettivo è «introdurre il gioco nella quotidianità e agganciarlo ai sogni comuni delle persone», spiega Giovanna Cosenza, che insegna semiotica all’università di Bologna. Ovvero quel parco per il mio bambino o una vigna per produrci il vino, di cui cantano in Lasciatemi sognare, che «in questo senso è perfetto», dice. «Ma questa normalizzazione pone un problema».
Quale lo spiega Giancarlo Rovati, professore di sociologia alla Cattolica di Milano, che per conto di associazioni e società del settore sta lavorando alla ricerca “Giocare per gioco” e ha analizzato 700 pubblicità di prodotto: «I consumatori sono diventati più inclini al sogno di una vincita che possa cambiare la vita (dimensione utopica) e meno attenti alle reali possibilità statistiche di avere successo (dimensione razionale). La facilità con cui si può giocare è scambiata con la facilità della vincita». Quanto alla possibilità di tenere insieme, in un spot, promozione del prodotto ed educazione al gioco responsabile, Rovati dice che «le aziende che fanno leva su comportamenti rischiosi hanno il dovere morale di tenere distinta la pubblicità di prodotto dalla comunicazione finalizzata a creare coscienza critica. In caso contrario si genera confusione. Va anche considerata la contraddizione tra la quantità degli spot e l’invito a giocare con moderazione. In un contesto simile, questo invito risulta inevitabilmente retorico e poco efficace».


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