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San Paolo chiama, Boeri risponde: la città del futuro passa anche dagli slums

di Paolo Manzo

È il sogno di ogni grande architetto. Mettere a disposizione il proprio talento per trasformare non solo un luogo ma anche la vita di chi vi abita. Soprattutto se gli abitanti in questione sono “esiliati” ai margini della società e della metropoli. Era un sogno e adesso è diventato un formidabile progetto che sfida gli oceani, accorcia le distanze, unisce l’Italia al Brasile, dando speranza a tutti. Si chiama “Jornada da Habitação”, “Viaggio nel mondo abitativo”, da noi ribattezzato “São Paulo calling”.
San Paolo, infatti, chiama e l’Italia risponde, coinvolgendo uno dei più importanti e sensibili architetti del nostro Paese, Stefano Boeri. Le sue linee sobrie ed essenziali e il rigore delle forme sono il cuore pulsante di questa iniziativa organizzata dalla Segreteria municipale per le abitazioni del Comune di San Paolo. Durante i prossimi sei mesi la metropoli brasiliana, tra le più popolose al mondo, ospiterà questo speciale viaggio, un viaggio di discussione teorica ma anche di proposte pratiche per dare un volto nuovo a sei favelas di San Paolo, ubicate in punti diversi della città. Si tratta delle favelas di São Francisco, Cantinho do Céu, Bamburral, Heliópolis, Paraisópolis e Centro. Luoghi, in parte, già studiati e poi visitati dall’architetto Boeri nel gennaio di quest’anno, dove tornerà anche nei prossimi mesi. Ogni visita è stata l’occasione per incontrare le comunità locali insieme a un pool di architetti e studiosi brasiliani e discutere tutti insieme nuove ipotesi di vivibilità urbana.
Le favelas brasiliane, nate intorno agli anni 40 sulle ceneri dei vecchi quartieri degli schiavi liberati per ospitare migranti brasiliani e non, sono diventate negli anni sinonimo di degrado urbano e violenza. All’alta densità abitativa si sono aggiunte, infatti, condizioni igieniche precarie. E, ancora, criminalità e narcotraffico.
«Se la vita in Brasile in genere vale poco», spiega João, uno studente intervenuto alla presentazione del progetto,«visto che si ammazza per una rapina, in favela non vale proprio nulla». Gli fa eco Karina, sua compagna di corso alla facoltà di Architettura dell’Università di San Paolo: «Dicono che Dio è brasiliano ma in favela non deve essere mai andato».

Un dialogo planetario
È in un questo contesto complesso, stratificato e, diciamolo pure, estremamente pericoloso, che Stefano Boeri con coraggio intende portare avanti la sua proposta. Di architettura ma anche di vita. E finora il feedback è stato positivo. Oltre alle centinaia di persone che hanno affollato la sua conferenza di presentazione al Centro Culturale di San Paolo, visitando anche una mostra creata in parallelo al progetto, il vero miracolo si è registrato nelle favelas in questione. Che lo hanno accolto con curiosità, prima, e con entusiamo, poi. Dai leader comunitari passando per la gente comune e i giovani, tantissimi giovani che in favela sono nati e che in favela ? dicono ? vogliono restare a condizione che la qualità della vita sia più degna. Anche perché il progetto del Comune di San Paolo guarda davvero lontano.
L’idea è quella di innescare un vero e proprio movimento di discussione o meglio ridefinizione urbana che coinvolga altre realtà sparse nel mondo ma ugualmente problematiche. Da Mumbai a Bagdad, da Nairobi a Mosca, da Medellin a Bangkok. Non manca l’Italia con lo squallore e l’abbandono dei suoi campi nomadi, come testimoniato dalle foto esposte nella mostra. Un dialogo planetario, insomma, che invita comunità e metropoli a riflettere su se stesse e a ridefinirsi.
Lo dimostra il singolare Manifesto che accompagna tutto il progetto, supportato da una municipalità pubblica con l’obiettivo di rendere sempre più possibili nel futuro attività partecipate tra pubblico e società civile.
«Le favelas sono parte integrante del tessuto urbano contemporaneo», spiega il celebre architetto brasiliano Paulo Mendes da Rocha, «migliorarle non significa solo pensare ad un nuovo modello di città ma aiutare un ramo di questo grande albero a crescere perché anche gli altri possano crescere. Certo non è facile ma abbiamo il dovere di provarci».

Una rivoluzione chiamata piazza
Boeri ha visitato, tra le altre, anche la favela di Heliopolis. È una favela simbolo, considerata a lungo la più popolata del Brasile, con 125mila abitanti e superata adesso solo dalla Rocinha di Rio. Il reddito medio di un suo abitante è di poco più di 200 euro mensili. Ha problemi di fognature (che coprono solo il 62% del territorio), acqua (che rifornisce solo l’83% delle baracche), non ha ospedali, il più vicino dista 25 chilometri. Ha però il wi-fi e dal 2003 un famoso architetto brasiliano di origine nipponica, il 72enne Ruy Ohtake, ha per primo cominciato un interessantissimo discorso architettonico: assieme agli abitanti è partito col progettare un intervento cromatico sulle facciate delle casupole di alcune vie, colorandole di giallo, azzurro, rosso e trasformandole in una cartolina postale che veicolasse solo messaggi positivi. Poi ha progettato la costruzione di tre asili e di un polo educativo e culturale di 35mila metri quadrati con tanto di nuova piazza come luogo di incontro. Il risultato è stato sorprendente: la favela ha cambiato volto e la nuova architettura, integrandosi con il resto del paesaggio urbano, ha dato una nuova spinta di crescita a tutta la popolazione. «Nelle favelas non ci sono piazze», spiega Thainara Cerqueira, una giovane abitante di 25 anni, «perché i narcotrafficanti preferiscono i vicoli stretti per nascondersi. La piazza per noi è stata come una rivoluzione e ha portato davvero tanta pace ad Heliopolis».
Il lavoro di Boeri e di tutta l’amministrazione di San Paolo farà dunque i conti oltre che con il degrado anche con la stratificazione dei vari tentativi di intervento architettonici realizzati in passato, un work in progress senza precedenti che davverò potrà gettare le basi di una profonda trasformazione urbana e sociale di qui ai prossimi anni. Esperti del mondo intero si sono uniti al progetto: architetti, progettisti, ingegneri, leader della società civile e ovviamente chi in favela ci vive. Tutti responsabili, nel loro piccolo, degli interventi architettonici del futuro. «È solo un Manifesto, è solo una mostra, sono solo incontri e discussioni con gli abitanti ma non potete capire da quanto aspettavamo questo momento», spiega con il luccichio negli occhi Islene, assistente sociale ultracinquantenne, da sempre in favela. «Siamo sempre stati gli esclusi della società, eppure dalle favelas arriva il 70% del lavoro manuale di cui San Paolo si serve, e adesso questo progetto ci sembra una manna dal cielo». Insieme potranno ripensare i loro spazi abitativi e sociali, insieme potranno sperare davvero in un futuro migliore. «Chi vive in favela è innamorato della favela perché c’è una solidarietà che non esiste da nessun’altra parte. Ma il prezzo che paghiamo è ogni giorno altissimo. Le infrastrutture sono ridicole, per raggiungere la città a volte impieghiamo tre ore. Se dunque qualcuno ci aiuta, noi trasformeremo il nostro spazio, che già amiamo, in un luogo dignitoso». Più scettico Heveraldo, che però è corso anche lui a sentire la presentazione dell’iniziativa: «Ci vorrà tempo e molti governi prima che le nostre città siano democratiche come le vostre in Europa».


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