Non profit

La michetta? È come il Suv Anche il pane quotidiano è un bene di lusso

di Daniele Biella

C’era una volta la vita “pane e latte”, con la variante “pane e acqua” per chi stava peggio. Bei tempi, nonostante tutto: ora alla “classe zero”, quella più vessata dalla stangata dell’inflazione e con un potere d’acquisto quasi nullo, sta per rimanere solo l’acqua. La pagnotta? Costa troppo, meglio mangiarne meno possibile.
A dirlo è chi con le mani in pasta ci sta tutto il giorno: «Dal 1999 ad oggi, gli italiani sono passati da 180 a 130 grammi di pane al giorno pro capite. Siamo a un terzo in meno nel giro di un decennio», denuncia Francesco La Sorsa, presidente della Fippa – Federazione italiana panificatori, l’ente di riferimento di quasi tutti i 26mila maestri dell’arte bianca nostrani. «Ma guai a pensare che sia colpa dei prezzi alti: la verità è che la gente sceglie prodotti alternativi, come cracker, pan carrè, grissini…», difende la categoria il presidente, «lo fa per risparmiare, nel frattempo si riempie di calorie».

Un rincaro del 1.200%
Resta il fatto che i prezzi della filiera del pane lasciano senza parole: 0,21 euro al chilo è il costo del grano corrisposto all’agricoltore, 2,8 euro è la media nazionale (fonte Sms consumatori) che si spende per comprare un chilo di pane. Il rincaro è del 1.200%. Quando va bene: nelle regioni del Nord dove la vita è più cara, Lombardia e Veneto in primis, si arriva senza sforzo a 4 euro al chilo. Con il record di Milano, dove si arriva a punte di 5-6 euro. «Grandi città a parte, dove si possono trovare prezzi onerosi, nel resto del Paese è anni che non si aumenta», ribadisce La Sorsa, «anzi, potremmo alzarli, ma siamo coscienti della situazione attuale di crisi». Allora perché dal campo, o meglio dire dal mulino (dove il grano viene trasformato in farina con un aumento del costo che però non arriva a un euro al chilo) alla tavola il costo esplode? «Manodopera, costi per l’affitto, gas e luce alle stelle, dato il nostro lavoro in gran parte notturno», elenca il presidente Fippa. “Liberalizzata” nel 2006 dall’allora ministro dell’Industria Pierluigi Bersani, la categoria ha ottenuto dall’ultimo dl Monti la possibilità di rimanere aperta 24 ore al giorno: «Una misura che non ci porterà alcun beneficio», sentenzia La Sorsa.

Gli agricoltori si organizzano
Se ciò non porta buone nuove ai panificatori, figuriamoci all’ultimo anello della catena. «Non c’è dubbio che la lievitazione del prezzo dal produttore al consumatore sia impressionante», interviene Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti, «mettiamoci pure le spese di gestione, il packaging, la logistica. Ma di fatto un chilo di pane costa più di dieci chili di grano». Non è demagogia la sua, chiarisce, «e nemmeno volontà di sminuire il mondo della panificazione. Piuttosto è la conferma che in tempi come questi, per chi ha un potere d’acquisto molto ridotto, innanzitutto gli agricoltori, il pane è diventato un lusso». Quali rimedi? Con l’aiuto dell’associazionismo, di qualche raro ente locale, o più spesso auto-organizzandosi (vedi box), i cittadini stanno tessendo reti sempre più ampie per permettere a tutti l’accesso al bene primario più importante (dopo l’acqua). «In Emilia e in Veneto, Coldiretti ha promosso la nascita di filiere del pane con contratto collettivo e prezzi sostenibili», spiega Bazzana, «poi c’è l’ottima fioritura dei mercati agricoli, per non parlare dei Gas, luoghi in cui l’equo rapporto qualità-costi è prioritario». Ultima frontiera a cui attingere, la Gdo italiana, in cui si vende il 57% del pane (il restante 43% in panetteria) a un prezzo spesso inferiore alla media, ma che si porta dietro un “retrogusto” imbarazzante: un quarto del totale arriva dall’Est Europa, Romania in testa, che nel giro dell’ultimo anno ha visto aumentare le esportazioni di pane verso l’Italia del +136%: siamo a 1,3 milioni di chili e 500 milioni di euro di fatturato. Tra le colline della Transilvania nasce l’impasto low cost (-60% di costi per materie prime e manodopera) che può rimanere surgelato anche due anni prima di essere venduto sugli scaffali. Nessuno scandalo, è tutto in regola: l’unica normativa Ue non rispettata finora (ma è questione di mesi) è quella che vuole la provenienza scritta sull’etichetta.


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