Cultura

La camorra non abita più qui

Nigeriani con negozi in regola, cinesi contro i rifiuti. Via Bologna, l'altra Napoli

di Michela A. G. Iaccarino

In una pasticceria specializzata in dolci arabi c’è un cinese che ordina una torta di compleanno per la fidanzata italiana: «Mi raccomando, scriva “buon compleanno amore mio”». C’è un ucraino che guarda una partita di calcio della Coppa d’Africa mangiando cibo indiano insieme al suo amico Gennaro. Imprecano in napoletano. Ci sono russe ed ucraine, ma soprattutto italiane, che fanno la fila dalla parrucchiera cinese per un taglio rapido. È la stessa titolare del negozio, di Pechino, che cerca di organizzare con le donne africane turni di pulizia della strada: «Napoli è troppo sporca, in Cina non ho mai visto tutta questa spazzatura».
Ci sono bar in cui i camerieri italiani hanno imparato a dare il benvenuto in tutti i dialetti magrebini. Ci sono decine di senegalesi: alzano le saracinesche dei negozi, allestiscono bancarelle, invitano a comprare sorridendo ai passanti. È stata l’associazione 3F (prende il nome dalla manifestazione antirazzista tenutasi a Roma nel 1996) a dare vita, «dopo anni di lotta sociale, solidale e antirazzista», all’unico mercatino interentico della città. «Noi non riconosciamo bandiere o nazionalità, nessuna frontiera, siamo tutti uguali, esseri umani nel mondo, nati per caso in un posto e non in un altro»: è Gianluca Petruzzo, 36 anni, nato in provincia di Avellino, a coordinare un corpo di volontari, italiani e stranieri, che favoriscono l’integrazione e la mescolanza interetnica, con incontri, manifestazioni, tutela legale e lezioni di lingua italiana. Sono loro adesso a occuparsi, a Napoli, dell’accoglienza di rifugiati politici e immigrati dei Paesi travolti dalle rivoluzioni della primavera araba: già molti libici e subsahariani sorseggiano espresso napoletano lungo la strada.
Via Bologna: sono loro, venuti da posti lontanissimi, che l’hanno quasi definitivamente strappata al degrado. Si trova a due passi da una delle zone più pericolose e malfamate della città, piazza Garibaldi, a cento metri dalla Stazione centrale, e nelle ore di buio anche questa strada si trasforma in una no man’s land, scenario solito della Partenope buia, di droga, crimine e prostituzione. Ma ogni mattina nord e sud africani, ucraini e russi, cinesi, pakistani e sud americani si salutano con un italianissimo “buongiorno”. E inizia la vita. È un esempio unico, un modello fragilissimo di multietnicità e solidarietà in una terra da sempre preda del degrado e di se stessa, matrimonio di etnie e di intenti, macedonia di culture lontanissime lungo una strada di un centinaio di metri. «Qui devi lavorare con loro o per loro», dice Alessandro, 32 anni, titolare di un negozio che vende prodotti esclusivamente africani. Sua figlia ha 3 anni ed è una bellissima mulatta: metà napoletana, metà nigeriana. Quasi lo stesso accade poco lontano, a Forcella, altro quartiere off limits del ventre partenopeo, dove sono le attività commerciali degli stranieri a dare l’unica parvenza di legalità rimasta al rione dello storico clan mafioso dei Giuliani. Organizzati in attività commerciali e lavorative, gli immigrati a Napoli non erigono ghetti e non fanno clan. Sono venuti per inventarsi una vita migliore, e neanche a loro piace quando scende il buio.

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