Volontariato

I legami fiduciari al posto degli interessi comuni. Parte l’era del peer-to-peer

Franca Bimbi, sociologa all'università di Padova

di Redazione

Franca Bimbi è una sociologa e una studiosa di politiche di genere. All’università di Padova tiene i corsi di “Mutamento sociale e globalizzazione” e “Culture, differenze, identità”. La incontriamo mentre sta seguendo il progetto “Speak out”, finanziato dal programma Dafne, sul contrasto alla violenza e all’esclusione delle donne migranti. Proviamo a capire con lei le dinamiche che si muovono nella sfera del welfare micro ed informale, che spesso balza alle cronache come modello virtuoso. «Io preferisco chiamarle mentorship di comunità. C’è una sfera della società che costruisce relazioni, ad alto tasso di complicità e vicinanza. Sono legami basati sulla fiducia, più che su interessi comuni e spesso sono refrattari a qualunque garanzia da parte di istituzioni od organizzazioni».
Lei parla di mentorship di comunità. A cosa si riferisce?
Sono gruppi di persone che hanno vissuto l’esodo dalle istituzioni (anche facendone parte) e dalla società organizzata, per costruire delle esperienze peer-to-peer. Imparano cioè a non guardare dall’altra parte, a non stare in silenzio, si muovono con sicurezza nella propria comunità e tra i servizi e ciò che vivono lo ripropongono ad altri. Sono gruppi che sentono di “venir prima”, che si sentono subito comunità. Si autodefiniscono tali e lo offrono di sostegno agli altri. Non sono clan chiusi o settari, ma estremamente aperti e porosi.
Questo rivela limiti e apre opportunità straordinarie…
Certo, ma è come se stessero sul bordo, tra l’essere aperti o chiusi rispetto all’universalità. Corrono questo rischio, ma per la maggior parte non si rifugiano in un’idea consolatoria e vaga di comunitarismo. Il fatto è che in questa società ci sentiamo un po’ tutti sparpagliati, e cerchiamo di costruire vincoli nella totale diffidenza che proviamo per gli altri, e pure per le nostre stesse esistenze.
Ed è per questo che sono soprattutto donne le protagoniste di queste pratiche di welfare?
Sì, e in particolare sono donne che sostengono altre donne. Ma è un fenomeno che riguarda quasi tutte le minoranze, i cosiddetti “soggetti subalterni”. Anche nel femminismo abbiamo fatto questo percorso, ma allora avevamo davvero un movimento sociale ampio alle spalle. Oggi siamo sole. E dobbiamo reinventare i nostri vincoli.
E come lo declina questo nel progetto Dafne?
Ad esempio, cerchiamo di far incontrare donne straniere e migranti perché si possano auto-organizzare. Abbiamo chiesto che discutano e scelgano i termini che scandiscono la loro vita, a cominciare dalla violenza. Non voglio dare per scontato il significato e l’esperienza di questo termine, né accontentarmi delle definizioni mainstream, neanche quelle fissate da altre donne. Insomma, mi piacerebbe avere una sorta di etnografia della violenza scritta da loro. Non da noi. Questa è la vera sfida che abbiamo di fronte.


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