Mondo
L’economia dei gesti va oltre il denaro
L'economista Dacrema: «Torniamo al valore del lavoro e dei rapporti che nel lavoro si instaurano»
di Marco Dotti
«Il denaro è proprio questo: velocità. Una velocità che, per molto tempo, ha facilitato il funzionamento del gesto economico, ma oggi ne costituisce quasi una patologia». Pierangelo Dacrema, economista, autore nel 2007 di un libro profetico (La dittatura del Pil. Schiavi di un numero che frena lo sviluppo), punta dritto al cuore della questione chiave che sta travolgendo il mondo occidentale in crisi: il denaro. «Il denaro è velocità allo stato puro, che non riusciamo più tenere a freno».
Il denaro, cioè il mezzo, è diventato il fine?
Partiamo dalla constatazione semplice – ma le cose semplici, ricordava Einstein, hanno spesso un altro grado di complessità nel nostro mondo – che il benessere non ci può mai derivare dal denaro in sé, ma dal lavoro, ossia dall’economia. Ossia da quell’insieme di gesti, pensieri ed emozioni che siamo tutti in grado di compiere e costituiscono la nostra economia. Viviamo di gesti, viviamo di pensieri che si devono calare in azioni, non di denaro. Il denaro può rivestire i rapporti economici e sociali, ma non ne è la sostanza. Ciò significa che il denaro, anche se può influenzarli, non è alla radice di questi rapporti.
E invece oggi li determina.
Proprio così. Il denaro, che sarebbe preposto a regolare i flussi di prestazioni legate ai nostri gesti, ha dei limiti microeconomici e dei difetti strutturali. Tra i difetti strutturali del denaro dobbiamo considerare almeno due fattori persino drammatici, nella situazione attuale: l’occupazione e la disoccupazione apparente.
In che senso “apparente”?
Nel senso che un terzo della popolazione lavorativamente attiva di un sistema mondiale a economia evoluta lavora in settori che, dalla contabilità alla progettazione, dalla salvaguardia alla negoziazione professionale, hanno a che fare con la gestione della moneta, ma sono per dir così altamente “inoperosi”. È un tributo umano che il denaro ci chiede: impiegare uomini, risorse, energie per il benessere non dell’uomo, ma del… denaro stesso. Parlo di occupazione apparente, perché questa forma di occupazione è costituita da un insieme di mansioni e compiti professionali che non incidono sulla qualità della vita e non hanno riscontro in un’attività produttiva vera e propria, ma in qualcosa che corrisponde a una necessità del sistema-denaro di avere persone impiegate alla sua “cura” e alla sua manutenzione. I numeri “chiedono” una manutenzione, ma non sono in relazione diretta con la produzione di quanto ci è utile, non rispondono – cosa che fa, invece, l’occupazione reale – a un bisogno concreto.
E la disoccupazione, in che senso è apparente?
La disoccupazione è un’idea statistica, che a poco a poco scivola sul piano esistenziale, diventa una condizione da cui è praticamente impossibile uscire perché il disoccupato trova nella propria condizione di reietto dal sistema l’impossibilità stessa di reimmettersi nel circuito all’apparenza salvifico del denaro. Un uomo “senza lavoro” è pur sempre un uomo che ha gesti, desideri, pensieri, azioni, economia. Ma questo per le statistiche non conta. Ci siamo mai chiesti che cosa succederebbe se portassimo questo terzo della popolazione mondiale da un’occupazione apparente a un’occupazione reale? Pensiamoci, perché forse il nostro problema, e la crisi del nostro sistema, è tutto qua.
E il denaro che posto dovrebbe avere?
Siamo stati investiti da una sorta di schizofrenia tra fare e sentire che purtroppo ci ha fatto perdere di vista un elemento fondamentale, ossia che il denaro è un fenomeno estraneo all’essenza del fatto economico. Il denaro è lo strumento che, date certe condizioni, facilita il perfezionarsi del fatto economico. Ma un fatto economico, al contrario, è sempre un concretizzarsi di pensiero e azione. È un gesto. Niente di più, niente di meno.
Intanto però ci troviamo persi nella spirale di una crisi peggiore di quella del 1929, forse la peggiore di sempre. Che cosa ci rimane?
Rimangono, né più né meno, le cose. Se siamo capaci di comprenderne la sostanza. Perché forse è proprio questo averci offerto continui alibi e dilazioni rispetto alle cose uno degli effetti più perversi della crisi iniziata nel 2008. Crisi che non abbiamo saputo assumere in pieno, perché abbiamo preferito affastellare sempre nuovi problemi, ma mai il problema. Stiamo osservando il succedersi di continui scossoni sistemici come spettatori davanti a un naufragio, quasi che la deriva non ci riguardasse.
Si guardano i numeri, si dimentica l’uomo, lei dice. Ma l’economia deve pur far i conti con i numeri.
L’economia è attività propria di quell’animale che pensa, agisce e vuole che chiamiamo “uomo”, non il contrario. L’economia è fatta di gesti, non di numeri. Eppure, in ragione della nostra scarsa capacità di comprendere – demonizzando o adorando, a secondo dei casi – il denaro e la sua concretizzazione, la moneta, in questo scorcio di nuovo millennio ci ritroviamo schiacchiati da numeri e cifre di ogni tipo, senza forze e senza tempo, e ci dimentichiamo che l’aritmetica più importante era e rimane quella della nostra esistenza. Dovremmo tornare alle cose, tornare al gesto, liberandolo. Fare economia, non numeri.
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