Famiglia

95mila insegnanti per 200mila disabili. Ma a scuola il “modello italiano” troppo spesso rimane ancora sulla carta

di Redazione

Quest’anno saranno 94.430, il livello più elevato mai raggiunto nella storia della scuola»: ha usato toni trionfalistici il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini annunciando il numero di insegnanti di sostegno messi in campo alla riapertura della scuola. Il ministro ha snocciolato medie matematiche (un insegnante di sostegno ogni due studenti sarebbe il rapporto nazionale) e ha raccontato come un successo quello che è solo un dato di fatto, ovvero che gli insegnanti di sostegno sono aumentati perché è aumentata la domanda. Di fatto, però, la totalità delle associazioni, delle famiglie e delle scuole stesse guarda a una realtà che sembra scivolare in una direzione totalmente diversa. Che anno si apre per i 200mila bambini e ragazzi portatori di handicap che entrano nel mondo della scuola? «Siamo molto preoccupati», confessa il presidente Ledha, Fulvio Santagostini. «L’inclusione scolastica è uno dei tasselli di un quadro più generale, quello del welfare. Se i tagli annunciati ridurranno l’assistenza domiciliare, renderanno più difficoltosi i trasporti, andranno a erodere gli organici e le ore del personale addetto all’assistenza all’interno delle scuole, che cosa resterà del diritto allo studio? Quali spazi di crescita e realizzazione ci saranno per questi ragazzi, in una situazione così compromessa?».

Il rovescio della medaglia
La via italiana all’integrazione scolastica dei disabili ha due facce. Da una parte c’è la teoria, che grazie a leggi ben fatte e lungimiranti ha portato al totale superamento delle scuole speciali e ha introdotto una filosofia di inclusione tra le migliori in Europa. Dall’altra c’è la pratica: incoerente, claudicante, insoddisfacente per tutti gli attori del sistema. Ne ha fatto un bilancio, con un’efficace fotografia, il recente rapporto della Fondazione Agnelli, della Caritas e dell’associazione Treellle Gli alunni con disabilità nella scuola italiana (ed. Erickson). «Ci siamo domandati se, rispetto al poderoso investimento economico, umano e di professionalità speso in quasi quarant’anni di storia, l’approccio italiano fosse davvero efficace», sottolinea il co-autore del rapporto, Alessandro Monteverdi.
La risposta? «Al di là del rispetto degli aspetti custodiali e di relazionalità, da parte del sistema c’è ancora una scarsa attenzione ai bisogni specifici degli studenti». Dal rapporto esce il ritratto di una “macchina” complessa, rigidamente ancorata al meccanismo delle certificazioni di disabilità che garantiscono l’assegnazione di ore di sostegno, scarsamente dialogante con le risorse esterne messe in campo da volontariato e cooperazione sociale, inefficiente rispetto ai costi: la spesa annuale totale della scuola per l’integrazione è stimata in circa 4 miliardi di euro, costituiti dagli stipendi per gli oltre 90mila insegnanti di sostegno, dai circa 25mila addetti e operatori esterni e dalla creazione di nuovi organici laddove vadano aperte nuove classi (la presenza di alunni disabili impone un tetto numerico di 20 studenti).

L’inizio del cammino
Il cammino di un bambino portatore di handicap trova i primi ostacoli nella scuola dell’infanzia. Anche per i più piccini vale la regola della certificazione Asl, che in modo abbastanza rigido e con approccio medico determina la necessità del sostegno. Le legislazioni e la prassi possono essere differenti da regione a regione: in alcune realtà non si effettuano certificazioni prima dei 3 anni (lasciando alla famiglia il grosso problema dell’assistenza al nido). In seguito, «alla scuola dell’infanzia, non essendoci ancora step di apprendimento e cognitivi tipici dei gradi di scuola che “danno voti” prefissati, vengono certificati solo i casi più gravi», spiega Patrizia Revello, dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo di Revello (Cn), che ha recentemente vinto, proprio per il grado della scuola materna, il concorso Fish “Le chiavi di scuola”.
Alle elementari, di fatto, il bubbone comincia a scoppiare. «Il sostegno scolastico è una parte centrale della vita delle famiglie», spiega Eleonora Salvi, della Fondazione Paideia, che a Torino è in prima linea nei progetti di accompagnamento. «L’esperienza della scuola varia da caso a caso. Può essere buona: dipende dalle persone, dalla capacità dell’insegnante di sostegno di rappresentare una risorsa e da quella della scuola di attivare una rete complessiva di sostegno e partecipazione al progetto individuale dell’allievo». Oppure, prosegue Salvi, può capitare che la scuola, nei casi più gravi, chieda alla famiglia di ritirare il bambino al termine delle ore di sostegno, perché “non gestibile” al di fuori del rapporto uno a uno. O che convochi la mamma per dare le medicine salvavita o addirittura i pasti al proprio figlio. «E più si avanza di ordine e grado, più i nodi critici


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