Non profit
Per diventare grandi basta mettere i pantaloni corti
Alberto Fantuzzo
Uno scout? Zaino in spalla, pantaloni corti e foulard al collo. Questo è quello che si vede. Il resto lo si scopre mettendo il naso in uno dei campi estivi che anche quest’estate in Italia coinvolgeranno circa 150mila ragazzi e ragazze dagli 8 ai 20 anni. «Il momento estivo è la conclusione di un percorso lungo un anno intero. Tutto il lavoro educativo che svolgiamo punta a tirar fuori dai ragazzi le loro risorse e a fargliele sperimentare, mettendole alla prova. Vogliamo far fare delle esperienze concrete a bambini e ragazzi troppo abituati al virtuale, alla tv», spiega Alberto Fantuzzo, co-presidente (insieme a Marilina La Forgia) dell’Agesci – Associazione guide e scout cattolici italiani, una vita da scout e – prima di diventare presidente – per diversi anni “Akela”, ovvero capobranco dei “lupetti”.
Termini strambi? Forse, ma per conoscere l’esperienza dei campi occorre immergersi anche in un vocabolario ben preciso, e lasciarsi alle spalle lo stereotipo di «quelli che girano in calzoncini perché ci piace far vedere le ginocchia», sdrammatizza ridendo Fantuzzo. «Noi facciamo esperienze concrete, comprese le vesciche ai piedi o prendersi un acquazzone. Non per masochismo, ma perché è importante uscire dalla routine per vedere le cose in modo diverso. Perché è importante quello che portiamo nello zaino, tutto quello che fai e che hai fatto, fa parte di te, va patrimonializzato. Perché nella vita non puoi cambiare canale, non hai una second life: di “life” hai questa, è tua e la devi vivere fino in fondo», osserva.
Ci mettiamo a caccia
E, proprio come la vita, anche l’esperienza da scout è molto varia. Non esiste “un” campo scout, ma diverse tipologie di esperienze che si adeguano all’età. Per i più piccoli (8-11 anni), ovvero i “lupetti” e le “coccinelle”, la settimana di vacanza è stanziale in una casa, con una o due mamme di ex lupetti o coccinelle che fanno da mangiare. «Si tratta spesso di strutture parrocchiali, spartane, con letti a castello, dove i bambini vivono una settimana piena di attività e giochi, lontano dalla mamma, dalla televisione e dalla Wii. Occorre essere incalzanti, ogni momento o è autogestito sotto la supervisione dei capi o vengono organizzati dei giochi. Si fa “la caccia”, nel senso che c’è qualcosa da scoprire e lo si cerca insieme. Vai nel bosco e scopri, vivi, e quelle esperienze diventano tue», spiega Fantuzzo. I due elementi base sono il gioco e il racconto: «A quest’età il bambino apprende perché gioca», mentre il racconto è la storia di Mowgli del Libro della giungla per i lupetti e L’ambiente fantastico del bosco per le coccinelle. «I libri non li commentiamo, vengono letti e fatti vivere e decodificare da loro: ogni anno c’è un aspetto da scoprire», rivela Fantuzzo. La giungla per i bambini e il bosco per le bambine sono gli ambienti fantastici che con i loro personaggi seguono lupetti e coccinelle per tutto l’anno; i nomi dei protagonisti delle storie diventano quelli dei capi: Akela, Bagheera o Balu, ma anche Arcanda e Anemone. «I vecchi lupi, ovvero i capi, hanno nomi di fantasia: io per esempio non ero Alberto, ma Akela». Una settimana di immersione nella natura aiuta i bambini a cambiare perché «non è la gita organizzata, ma in un campo sei coinvolto a 360 gradi, anche i bambini partecipano ai servizi, si sistemano il loro angolo, sono protagonisti delle attività».
Dalle stringhe alla bandiera
Un branco o un cerchio (il nome dei diversi gruppi) sono composti da un massimo di 32 persone: «Non è un numero magico, ma ha una storia: Baden-Powell al primo campo che fece nel 1907 nell’isola di Brownsea, in Inghilterra, portò 16 ragazzi e disse loro: “Sapendo già che voi sarete bravi il doppio di me, da 16 potrete arrivare a 32, ma non di più”. La morale è che se vuoi coltivare un rapporto personale con ciascun ragazzo, se vuoi sviluppare un progetto personalizzato di crescita, non bisogna essere in troppo, altrimenti non riesci a coltivare quel rapporto diretto che è il senso della nostra attività».
E questo lo si sperimenta durante tutto l’anno. «Ci sono i campi invernali di due o tre giorni, si fanno le uscite più o meno ogni mese: si va via la domenica, o il sabato, tutto il weekend. Intorno, ci sono le decine e decine di ore di un capo scout per preparare le attività, il materiale, stabilire i contenuti educativi», elenca Fantuzzo. Anche le tante abilità tecniche che si associano all’idea degli scout – «quelli che sanno fare i nodi, riconoscere gli alberi…» – non sono fini a se stesse. «Attraverso la tecnica si impara l’uso delle mani, l’attenzione alle piccole cose: nell’imparare a fare i piccoli nodi, i lupetti imparano anche ad allacciarsi le scarpe da soli, per poi passare a fare le legature con cui al campo gli esploratori imparano a fare l’alzabandiera», spiega il co-presidente.
«Per ogni cosa che si fa, si impara a svolgere il proprio compito. È una continua scoperta di sé e dei propri carismi; per noi che siamo un’associazione cattolica, questo significa anche affrontare l’aspetto spirituale dell’esistenza, dei doni che Dio ci ha fatto e che dobbiamo mettere al servizio degli altri. Saper riconoscere gli alberi, che sono unici, per poi riconoscere gli uomini che sono unici: così impariamo ad accettarci, perché siamo unici, originali, inconfondibili. Tutto questo va al di là degli skill tecnici: non fermiamoci alla tenda o ai pantaloncini, dietro ci sono i contenuti», si scalda Fantuzzo.
Durante le attività settimanali c’è la possibilità di vivere una dimensione assimilabile alla vacanza, cioè fuori contesto, fuori casa: «È vivere qualcosa che ci possa essere utile nella vita di tutti i giorni. Non è che decontestualizziamo, che facciamo fare un film, un’esperienza forte che si fermi all’occasione del campo o della route: vogliamo che l’esperienza di quella settimana, di quei quindici giorni sia pregnante». Il culmine di tanti piccoli passi fatti durante l’anno.
Il cellulare, ultimo scoglio
Già, perché il clou è “il campo”, quello che tutti attendono e sognano: “esploratori” e “guide”, ragazzi e ragazze dagli 11 ai 16 anni, divisi per squadriglie, in tenda in mezzo alla natura. «Ogni squadriglia ha la propria autonomia, e l’autonomia è un altro degli elementi fondamentali dello scoutismo perché i ragazzi sono abituati a stare troppo attaccati al cordone ombelicale delle mamme. Il cellulare, per esempio, è un cordone ombelicale. I telefonini vengono requisiti quando inizia il campo, così ci sono mamme che ai loro figli ne danno due: i ragazzi uno lo consegnano ai capi, e l’altro lo tengono nascosto. Ma siccome non siamo scemi… li becchiamo sempre. Però i genitori quando si rendono conto che le attività che facciamo fanno crescere i loro figli, smettono di avere l’ansia da telefonino». Fantuzzo in questo caso più che da scout parla da genitore: «Sono il papà di una ragazza di 24 anni e di un ragazzo di 20, entrambi impegnati negli scout. Quando ti rendi conto che vivono delle esperienze che tu non saresti in grado di fargli fare, acccolgono dei contenuti che tu non sei in grado di far ascoltare, il capo scout per un genitore diventa l’idolo».
L’ultimo passaggio educativo è quello compiuto dai ragazzi tra i 16 e i 21 anni, il “clan”, dove gli adolescenti, “rover” e “scolte”, diventano i protagonisti delle attività della route, la strada: «Il campo è mobile, si pianta la tenda la sera e la si spianta al mattino. È un’esperienza di percorso, ti porti l’essenziale», racconta. «Ci si ferma all’alpeggio, si dà una mano, si fa servizio, si incontrano le comunità, si dà disponibilità a qualche istituto per anziani…. Ci sono route di servizio, per esempio si aiuta il WWF a sistemare un’oasi, ma anche quelle più spirituali: per esempio si fa il Cammino di Santiago o si va dai monaci a Camaldoli o a La Verna. Sono i ragazzi i protagonisti delle decisioni, ed è una dimensione alla quale i giovani di oggi sono molto poco abituati…».
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