Welfare

Per salvare i diritti sono diventato crudele

Luigi Manconi

di Sergio Segio

Luigi Manconi dice di essersi sempre considerato un «militante politico a tempo pieno». Ma la sua biografia è decisamente più ricca: alla professione di sociologo, docente universitario e ricercatore sociale ha man mano unito l’attività di editorialista, parlamentare, portavoce dei Verdi, sottosegretario alla Giustizia, scrittore, fondatore dell’associazione “A buon diritto”. Tratto unificante è l’impegno sul fronte dei diritti umani e civili e un garantismo intransigente.
Nel suo ultimo libro, “Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri”, scritto con Valentina Calderone, ha dato voce e spessore a storie di vittime che assai spesso non sono conosciute e riconosciute come tali: morti in carcere e morti di carcere, deceduti legati a una branda nell’ospedale psichiatrico, uccisi durante un arresto o in una manifestazione di piazza. Perché fare una scelta così scomoda e controcorrente?
Nel più favorevole dei casi, i nomi di quelle vittime restano nomi, ovvero scarne indicazioni anagrafiche all’interno della cronaca nera o delle statistiche criminali e non assumono mai la forza di un’identità. Affrontando questo tema abbiamo deciso che nostro primo compito fosse restituire a quei nomi e cognomi anzitutto un corpo e poi una biografia. Un corpo significa proprio la loro fisicità, la materialità di costituzioni fisiche fatte di arti, cuore, cervello e ciò che la violenza di Stato ha fatto di quegli organi. Abbiamo scelto quindi di raccontare le agonie e le autopsie, gli strazi dei corpi e gli oltraggi inflitti loro. Perché solo così – attraverso quindi un’operazione crudele, che mettesse in scena l’osceno, ciò che in genere non è rappresentato – si poteva restituire tutta la violenza subita da quelle vittime. Riconosco come crudele quest’operazione: ed è tale innanzitutto per i familiari. Eppure, sono stati loro per primi a volere questa rappresentazione intera dei loro congiunti, appunto il passaggio da un nome alla cruda vivezza di un corpo martoriato. Possiamo dire addirittura che il nostro libro nasce proprio nel momento in cui i familiari di Stefano Cucchi ci autorizzano a diffondere, nella prima conferenza stampa convocata al Senato, le terribili foto del figlio, scattate all’obitorio.
Nella “Repubblica del dolore” che è diventata l’Italia (è il titolo di un libro scritto dallo storico Giovanni De Luna), intere regioni oscure sono rimaste inesplorate. Lei ha scelto di dare voce anche a questo pezzo di storia negletta. Per completare un “affresco della sofferenza”?
Intanto penso che completare quell’affresco, ovvero quella “sacra rappresentazione”, come preferisco chiamarla, sia necessario. Proprio in questi giorni sono stato coinvolto in una singolare vicenda romana: dal momento che si vogliono intitolare i giardini di una piazza a un giovane di estrema destra, Francesco Cecchin, ucciso negli anni 70, un gruppo di persone ha chiesto al sindaco Alemanno, patrocinatore dell’iniziativa, di soprassedere e di dedicare invece quella piazza a tutte le vittime di quegli anni, degli opposti schieramenti. Io ho aderito con convinzione, ma ho anche suggerito che la dedica a tutte le vittime non escludesse la possibilità che vi fosse la memoria, una lapide, un segno, che ricordasse in particolare Cecchin, perché legato a quel quartiere, a piazza Vescovio. Non solo. Ritengo che se quel nome viene accostato a qualcosa che ricorda tutte le vittime, questo aiuta la memoria, non la inquina.
È difficile fare il lavoro sulla memoria?
Sì, me ne rendo conto che è un lavoro difficilissimo, è qualcosa sul quale si interrogano filosofi, antropologi della portata di Tzvetan Todorov. Però ciascuno di noi può fare la sua piccola parte. Noi nel libro ricordiamo la morte di Nanni De Angelis, indubbiamente un fascista, probabilmente coinvolto in operazioni militari, e lo ricordiamo accanto ad altri nomi; nel libro non abbiamo scritto il suo nome accompagnato da una definizione politica, perché non ci interessava mettere alcuna distanza tra noi e loro. Tra le vittime di cui parliamo c’è Salvatore Marino, probabilmente coinvolto in un omicidio di mafia, morto a seguito di atti di vera tortura a opera di membri della polizia di Palermo. Da parte nostra c’è la volontà di riconoscere in ogni vittima in quanto tale il senso di un’iniquità assoluta. Credo sia stata la stessa ragione che spinse nel 1985 l’allora ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro, in occasione appunto della morte di Salvatore Marino, a dichiarare: «In uno Stato democratico nessuno può entrare vivo in questura e uscirne cadavere». Ciò che io trovo singolare è che nessun altro, prima e dopo di lui, abbia avuto quell’elementare senso dei valori che fondano una democrazia.
Tornando al vostro libro, raccontate numerose storie di morti violente per mano e responsabilità di uomini delle istituzioni. Nell’introduzione, Gustavo Zagrebelsky specifica che non si tratta di un atto d’accusa contro lo Stato, che nessuna generalizzazione è possibile. Voi, nel testo, mi sembra siate meno categorici, parlando di una possibile «strategia dell’abuso».
Noi intanto facciamo nomi e cognomi tutte le volte che è documentabile, talvolta in chiave ipotetica, talaltra in modo esplicito. Ancora: noi riteniamo che vi sia un eterno conflitto tra, da una parte, una minoritaria tendenza alla democratizzazione, alla trasparenza e al garantismo all’interno delle forze dell’ordine e, dall’altra, una tendenza diffusa all’abuso e all’illegalità. In questo scontro, la seconda tendenza risulta frequente e robusta, mentre la prima fatica assai ad affermarsi. Anche perché non è mai adeguatamente sostenuta dalla classe politica. Il capo della Polizia, Antonio Manganelli sembra volere favorire la tendenza alla democratizzazione, ma palesemente non ha il necessario appoggio della classe politica in questa lotta impari.
Massimo Pavarini ha scritto che «la pena della prigione è ancora e soprattutto una pena corporale, che dà dolore fisico e produce malattia e morte». In modo diverso, anche la violenza su arrestati e reclusi investe il loro corpo e diventa anticipazione della condanna, risposta artigianale a una presunta incertezza della pena. A suo parere, esiste nelle istituzioni penali una cultura di questo genere?
L’assunto di Pavarini è chiaro e condivisibile, non altrettanto il parallelo contenuto nella domanda. Per un motivo cruciale: nell’esecuzione della pena esistono limiti, veti e interdizioni, come il divieto costituzionale a trattamenti disumani. Dunque tra il contenuto violento della pena detentiva, suscettibile di produrre effetti gravi sul corpo e sulla psiche di chi la sconta, e l’esercizio illegale e sregolato della coercizione e del ricorso alla forza fisica c’è un discrimine. Si tratta di un discrimine che rischia costantemente di essere violato e di un confine non sempre nettissimo e, tuttavia, una differenza c’è. Si deve lottare per ridurre al minimo quel contenuto sempre violento della pena detentiva e per mettere al bando la violenza illegale e sregolata che viene esercitata nei confronti di chi è prigioniero. Non abbiamo alcun interesse, né scientifico né umanitario, a confondere le due questioni.
Uscirà a breve un suo nuovo libro, di argomento forse insolito per chi non la conosce: “La musica è leggera. Saggio autobiografico sul sentimental kitsch”. Dai diritti violati alla musica. Perché?
Per me la musica leggera-sentimentale è una passione e, come tutte le vere passioni, è sfrenata e in qualche modo insensata. Impossibile indicarne la genealogia. Già è difficile dirla e con quel libro ci proverò.
Una domanda “privata”: da tempo ha seri problemi alla vista, che le hanno reso assai difficile la vita quotidiana e lavorativa. La vedo molto sereno. Cosa le dà forza in questa situazione?
Non ho “seri problemi alla vista”: sono quasi non vedente e, di conseguenza, assolutamente non leggente. Ecco come stanno le cose. Ciò rende complicata la vita lavorativa, ma soprattutto assai ardua quella quotidiana. Per quanto riguarda quella che chiama “la mia serenità”, essa si deve, credo, a una mia singolarissima forma di “incoscienza” che è spensieratezza fino a un qualche allegro obnubilamento e insieme propensione iper-produttivistica, che mi porta a lavorare ancora di più. Ma non si dimenticji che ho un passato teatrale e qualche dote attoriale…

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