Non profit

Comunità solidali, ovvero la filiera della cura mentale

Servizi non profit a 360 gradi: dai minori al dopo di noi

di Marina Moioli

I numeri: 49 soci in 16 regioni, 43 consorzi territoriali, 2 cooperative sociali e oltre 3mila servizi domiciliari, residenziali e diurni gestiti dalla Rete: sono i numeri del Consorzio Comunità solidali nato nel 2003 dalla rete nazionale Cgm con lo scopo di operare nell’ambito della salute mentale ma che negli ultimi anni si è occupato anche di disabilità e anziani. «Infatti è trasversale a tutti e tre questi ambiti l’Accademia della Cura avviata nel 2008, una modalità nuova per fare formazione motivazionale agli operatori. Si tratta di un progetto fatto per “curare chi cura”, nel senso di risvegliare, tener vivi i significati e i valori che stanno alla base della scelta di operare nel settore sanitario», dice Grazia Fioretti, consigliere di Comunità solidali.
Strada facendo il consorzio ha promosso anche la società Alfa, insieme a Intesa Sanpaolo e Fondazione Anfass, finalizzata ai servizi residenziali per il “dopo di noi” delle persone con disabilità e più recentemente, nel maggio 2010, il consorzio Caris, che opera nel settore degli ordini religiosi che non riescono più da soli a portare avanti le loro opere, in particolare nel settore dei servizi di cura.
Il tutto in una logica forte di sussidiarietà «perché noi abbiamo sempre incentivato la nostra rete a non fare intermediazione di mano d’opera, a non vendere ore al servizio pubblico, ma ad essere titolare dei servizi che gestisce, accreditarli e porsi sul mercato con un proprio ruolo, con un proprio progetto», commenta Grazia Fioretti.
Il consorzio Comunità solidali non ha rapporti diretti con il settore pubblico, sono le singole cooperative che si rapportano con le Asl, a seconda delle scelte operative locali, e firmano i contratti con le aziende sanitarie di riferimento. «Si tratta di una retta giornaliera a paziente che varia da Regione a Regione. Alcune mettono la salute mentale nella sanità pura, altre nel sociosanitario», aggiunge Fioretti. «Noi siamo convinti che il ruolo del pubblico debba essere di programmazione, di controllo, di regolazione, ma che a gestire i servizi siamo molto più bravi noi come privati, come imprese sociali. Perché siamo soggetti che sanno assumersi il rischio d’impresa, vedono i bisogni prima, sanno promuovere l’innovazione e sanno anche raggiungere buoni risultati in termini di rapporti costi-benefici. Con la stessa retta, infatti, le nostre imprese sociali e le aziende ospedaliere danno servizi molto diversi».
Non è solo una questione di efficienza o di burocrazia. Secondo Fioretti nel pubblico «manca la propositività e in certi casi anche l’amore per il proprio lavoro. Da noi il presidente va in vacanza con gli utenti, difficile che lo faccia il direttore generale di un’azienda ospedaliera. Sono molto accorciate anche le distanze gerarchiche: c’è una dimensione di passione condivisa. Cerchiamo di tener viva da una parte la passione, dall’altra la qualificazione. E l’Accademia della Cura l’abbiamo voluta proprio per tenere viva questa passione che è un elemento di differenziazione che ci caratterizza. La vera magia che abbiamo nei nostri consorzi è la possibilità unica di avere sia le cooperative B sia le cooperative che gestiscono le comunità, la domiciliarietà e i centri diurni».
Forte anche di un severo sistema di monitoraggio con i test elaborati dall’Università di Verona per la verifica dell’efficacia degli interventi riabilitativi e la soddisfazione dell’utenza, Comunità solidali ha creato in questi anni, insieme all’Accademia della Cura, Caris e Alfa, la filiera completa dei bisogni della salute mentale: dal Consorzio Oscar Mello di Reggio Emilia specializzato per la cura dei pazienti che vengono dagli ospedali psichiatrici giudiziari alle comunità per minori, fino agli appartamenti per il “dopo di noi” nella salute mentale finanziati dalla Cei. «L’obiettivo», conclude Grazia Fioretti, «è sempre lo stesso: non “perdere” la persona che soffre di disturbi perché tutto il nostro lavoro è indirizzato a reinserire, sia dal punto di vista lavorativo che sociale, gradualmente, ma lasciando autonomia».


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