Non profit
Generazione Erasmus, due milioni di studenti cresciuti per costruire la nuova Europa
Storia e prospettive del programma nato nel 1986
di Redazione
La prima idea, quasi un abbozzo, arrivò per caso, in un pub di Bruxelles. Davanti a un boccale di birra, ricorda Hywel Ceri Jones, discutendo con gli amici di un programma di studi all’estero dell’Università del Sussex al quale il futuro direttore generale della Commissione Europea aveva partecipato, qualcuno si lasciò scappare una frase: «Perché non replicarlo? Perché non rendere sicura e stabile, nel tempo, questa esperienza?» Erasmus, o almeno la sua idea originaria, nacque così.
I principi basilari dell’Erasmus, acronimo che indica l’European Region Action Scheme for the Mobility of University Students, furono posti nel 1976, quando il Consiglio dei ministri dell’Istruzione si riunì a Bruxelles e per la prima volta raggiunse l’accordo su una stretta cooperazione da istituire tra i sistemi educativi di quella che, allora, si chiamava ancora Comunità economica europea. Hywel Ceri Jones osserva come questo accordo di massima rappresentasse una svolta radicale, decisiva, poiché «fino ad allora il tema dell’istruzione era stato tabù nell’agenda europea».
La promozione dei corsi di studio congiunti tra università poteva risvegliare all’idea di uno spazio comune, qualcosa di simile alla koinè medievale, quando studenti e chierici si muovevano da Lovanio a Bologna, da Milano a Parigi senza incontrare ostacoli. Nel 76, però, c’erano ancora troppi ostacoli. Primi tra tutti, l’assenza di una salda volontà politica e di una base giuridica per un’azione condivisa nel campo dell’educazione. Ostacoli in gran parte determinati da concezioni politiche poco propense alla cooperazioni tra Stati o dal timore che l’opinione pubblica risultasse fortemente contraria a quella che, in qualche modo, poteva essere letta come un’ingerenza nello spazio della sovranità nazionale. Sta di fatto che il programma di mobilità studentesca Erasmus entrò a regime solo dieci anni dopo, nel 1986, quando personalismi e paure ancora radicati in un clima da guerra fredda sarebbero definitivamente tramontati. Una piccola, grande rivoluzione.
Attualmente sono 2.199, divise in 31 Paesi, le istituzioni che partecipano al progetto che prende il nome dal grande umanista Erasmo da Rotterdam, non a caso infaticabile viaggiatore e frequentatore di università europee. Più di 2 milioni i ragazzi che hanno avuto la possibilità di effettuare parte del loro percorso – dai 3 ai 12 mesi – in un’università straniera, costituendo, come osserva Francesco Cappè, curatore del recente Generazione Erasmus: L’Italia delle nuove idee (Franco Angeli, pp. 138, euro 18), una rete capace di sviluppare azione comune, in un contesto regionale che la fine dello Stato-nazione ha reso altamente globalizzato. Ecco perché, anche attraverso strumenti come l’Erasmus, spiega ancora Cappè, i giovani sono chiamati a «prendere la guida culturale e politica del Paese Italia, della regione Europa, per sviluppare un’azione internazionalista inclusivista». Se il futuro dell’Italia e dell’Europa sarà mai nelle loro mani, lo si dovrà anche a progetti – pochi – come l’Erasmus, che hanno mostrato una non comune tenuta nel tempo.
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