Non profit
Il not for profit deve diventare metodo formativo
Capitalismo in cerca di una conversione social
di Redazione

Non sono cattiva, è che mi disegnano così». Non è il massimo come apertura per un pezzo su un tema spinoso e impegnativo come la formazione manageriale tra profit e non profit, ma la celeberrima citazione di Jessica Rabbit – una scheggia di cultura pop che regge il passare del tempo – riassume bene il tema. C’è infatti anche la formazione sul banco degli imputati della crisi e il capo a suo carico è pesante: aver formato tecnicamente e culturalmente schiere di manager affinché assumessero comportamenti ispirati, ancora oggi, al modello economico dominante. Non si tratta quindi di persone con un orientamento innato all’egoismo e al self interest, ma sono piuttosto l’esito di modelli formativi proposti dai migliori master in “Business administration” delle migliori business school che, per l’appunto, li hanno “disegnati così”.
L’accusa peraltro non è mossa da una qualche organizzazione anti sistema, ma dai più prestigiosi house organ del capitalismo planetario. Economist e Financial Times hanno dedicato nei mesi scorsi ampio spazio ai mea culpa del settore. Settore che, naturalmente, non si è limitato a prendere atto della situazione, ma ha accelerato un processo di riconversione in senso “sociale”. Concetti come “social innovation”, “shared value” e, con strana assonanza, “social entrepreneurship” bollivano in pentola già da qualche tempo, probabilmente perché i promotori dell’offerta formativa mainstream erano consapevoli che il capitalismo, o almeno una certa sua declinazione, è sotto assedio.
È necessario quindi un nuovo progetto formativo che metta al centro delle competenze manageriali la capacità di creare valore non solo per gli azionisti, ma per diversi stakeholder (lavoratori, comunità locali, ecc.), non tanto perché si è in vena di fare responsabilità sociale, ma perché sono a repentaglio importanti quote di mercato, per esempio a causa di consumatori che, come afferma Leonardo Becchetti, «votano col portafoglio». Insomma, l’obiettivo è sempre quello: creare valore, ma attraverso modalità che non siano solo i dividendi e prevedendo una più ampia platea di beneficiari, come sostenevano qualche tempo fa sulla Harvard Business Review i guru della strategia aziendale Michael Porter e Mark Kramer.
E il non profit? È successo come nei sogni: ci si sveglia sempre sul più bello. Sembrava l’occasione per cambiare alle radici la formazione manageriale tout court, realizzando la profezia di Peter Drucker, altro riferimento del pensiero manageriale che qualche decennio fa indicava cosa il non profit potesse insegnare al for profit. In realtà le cose non sembrano ancora seguire questa direzione. Le business school hanno preferito cucinarsi tutto in casa e il non profit non sembra essere in grado di portare a regime un’offerta formativa dove i suoi caratteri distintivi emergano con chiarezza. Anzi, in qualche caso si assiste a forme di colonizzazione paradossali: proprio mentre il business si riposiziona in senso sociale, il sociale prende una deriva manageriale. La solita vecchia storia dunque, che fa aspirare, ben che vada, a qualche “testimonianza” durante un corso manageriale classico o a rinchiudersi nella riserva di corsi per imprenditori e manager sociali. La partita però non è chiusa, ma serve un “upgrade”, passando dal livello dei contenuti – tipicamente le case history rigorosamente di successo – al metodo. Un metodo che, con un’altra curiosa assonanza, la filosofa Martha Nussbaum ha definito “not for profit”. Il riferimento non è a forme giuridiche e normative, ma al metodo socratico che stimola la capacità dialettica, creativa, non autointeressata all’origine delle virtù civiche e democratiche. Se poi a incarnare questi valori in un progetto formativo è un’organizzazione non lucrativa, allora non si tratta di un semplice gioco di parole ma di una sfida portata al cuore dei sistemi educativi, manageriali e non.
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