Welfare

Una tendenza con tante ombre

Johnny Dotti, amministratore delegato di Welfare Italia

di Redazione

Questa è la scommessa più grande del nostro tempo. Il dibattito sul “secondo welfare” deve nascere sulla scorta di un pensiero collettivo e deve mettere in cima alla lista la costruzione di legami e di capitale sociale. Va cambiato lo schema, altrimenti non basterà cambiare gli attori». Johnny Dotti, ad di Welfare Italia, il progetto del gruppo Cgm dedicato alla sanità che conta già 16 centri in tutta Italia e molte attività con domanda aggregata, ha ben presente quale partita si apre per il terzo settore.
Qual è lo schema di welfare che non regge più?
L’idea che il welfare si giochi tutto tra moneta e prestazione. È un punto rilevante, che arriva ben prima dell’impatto di questa crisi economica mondiale: il sistema, che finora ha retto perché esistevano legami parentali, sociali, amicali, di cittadinanza, ora è destinato a scivolare in un’inesorabile crisi. Non importa che al posto dello Stato arrivino le aziende. Non reggeremo a un’espansione illimitata dei bisogni, soprattutto se questi bisogni vengono sempre più sovrapposti con i diritti.
Come leggerli e declinarli, allora?
Un tempo erano mediati dalle istituzioni di comunità: il prete, il farmacista, il carabiniere, il medico. Si trattava di legami, relazioni di senso, che guardavano alle persone e non semplicemente alle prestazioni. Il cambiamento del welfare deve giocarsi sulla domanda, in modo da aggregarla e da ridefinire il rapporto tra domanda e offerta. Come nel mutualismo delle origini, bisogna educare le persone a condividere i loro bisogni con altri portatori di bisogni.
Le aziende sembrano aver intercettato il fenomeno…
Vero, ma non bisogna equivocare: l’azienda non è di per sé “buona”, ragiona in termini di profitto e di vantaggio fiscale. In essa il dipendente sviluppa un legame temporaneo, che esiste finché esiste il rapporto contrattuale. Ma il rapporto tra domanda e offerta è molto più complesso ed esce dai confini della vita professionale: basta pensare che in diversi momenti della vita posso essere erogatore oppure utente di welfare.
Esiste il rischio che il “secondo welfare” possa creare una forbice tra lavoratori e non?
È proprio questo il nocciolo del problema: parte del sistema si sta già verticalizzando, favorendo persone lavoratrici, mentre la spinta verso l’innovazione del capitale sociale dovrebbe svilupparsi in senso orizzontale, pervadere la società sui territori, garantire l’universalità del welfare sulla sola base della cittadinanza e non della condizione professionale. Un esempio chiaro sono i fondi sanitari privati, che hanno già qualcosa come 9 milioni di utenti. L’immaginario del nostro futuro è la salute e, non a caso, il settore interessa moltissimo i grandi fondi d’investimento.
In questi termini, quale ruolo dovrebbe o potrebbe giocare il terzo settore?
Di sicuro non quello del prestatore d’opera per conto terzi. Deve riappropriarsi del suo ruolo d’incubatore di legami. E deve, a mio avviso, fare uno sforzo per crescere: uscire dalla sua adolescenza, in cui fino ad ora uno Stato-padre gli ha fornito le risorse per vivere. Questo cambio di passo può essere la chiave per costruire il welfare di domani: serve una reale autonomia economica del terzo settore, agganciata a una solida responsabilità civile. Dopo aver perso l’occasione dello sviluppo della cooperazione sociale, avendola ridotta sostanzialmente a fornitura dell’ente pubblico, e dopo aver perso quella del badantaggio, ridotta a una contrattazione individuale con le famiglie, speriamo di non perdere la possibilità di riflessione che offre ora il “secondo welfare”.
Si dice che per lo sviluppo del “secondo welfare” sia necessaria una regia…
Il welfare deve di sicuro mantenere una tensione universalista, cioè essere disponibile e accessibile a tutti i cittadini. È un settore che costa decine di miliardi di euro ed è evidentemente una cosa pubblica. Ma non deve essere appiattita sul concetto di Stato o amministrazione. Lo Stato può e deve avere un ruolo da protagonista nel promuovere e regolare questo welfare, ma deve rappresentare lo scheletro di un corpo più complesso, in cui tutti possano partecipare alla sorte collettiva.

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