Welfare

In Italia sono 2 milioni i non autosufficienti. A loro disposizione appena 287mila posti letto. Le alternative? Ci sono. Eccole

di Redazione

Viene definita, senza troppi giri di parole, “emergenza demografico-epidemiologica”. Il fenomeno è ben descritto dai dati Istat: con oltre 12 milioni di ultrasessantacinquenni (circa il 20% della popolazione totale), un indice di fecondità pari a 1,4 figli per donna, una prospettiva di vita intorno agli 80 anni (84 per le donne), il nostro è un Paese vecchio. Vecchio e impreparato al futuro che lo aspetta: con 143 anziani ogni 100 giovani (in Europa solo la Germania ha un indice di vecchiaia più alto), non è pensabile immaginare che le famiglie possano continuare, senza validi interventi, a farsi interamente carico della progressiva perdita di autonomia dei nonni. Eppure, fino ad oggi gli italiani hanno preferito, sopra ogni altra cosa, un sistema di “presa in carico” basato essenzialmente sulla famiglia: basta pensare che la media nazionale di ricovero in strutture si è mantenuta stabile negli ultimi anni (intorno al 3 per mille dal 2001 al 2006). Uno dei fattori che ha permesso la “tenuta” della domiciliarità è stato l’ingresso di un gran numero di badanti straniere (1,5 milioni, secondo una rilevazione Censis del 2009).

La “questione” della non autosufficienza
In Italia gli anziani over 65 non più autosufficienti sono il 18,7%, pari a circa 2 milioni. I dati sono del Network Non Autosufficienza, che pubblica da due anni, per Maggioli, un rapporto sull’assistenza agli anziani non autosufficienti che rappresenta uno dei più approfonditi scandagli sull’evoluzione e i trend del settore.
Gli interventi pubblici a favore di questi soggetti si sviluppano sostanzialmente in assistenza domiciliare integrata, assistenza residenziale e trasferimenti monetari. La spesa complessiva per questi interventi “Long Term Care”, spiega il Naa, incide per l’1,18% sul Pil nazionale. A comporre la parte maggiore della percentuale è l’indennità di accompagnamento (gli assegni per invalidità civile, che sono indipendenti dal reddito e senza vincolo di destinazione e che attualmente rappresentano, per lo Stato, una voce di spesa pari a 12,5 miliardi di euro), seguita dai servizi socio-sanitari, di cui sono responsabili le Regioni e i servizi sociali, che fanno capo ai Comuni. Negli ultimi cinque anni le Regioni hanno affrontato la “questione anziani” secondo modalità estremamente eterogenee (sposando il modello della residenzialità in Trentino e Val d’Aosta, oppure del cash-for-care nel Centro-Sud, oppure diverse gradazioni di intensità assistenziale dall’Emilia alla Puglia), ma certamente con il risultato di potenziare il settore. Oggi queste scelte si trovano in una fase di stallo. «Diversi motivi spingono molte amministrazioni regionali a mettere in discussione la possibilità di continuare il percorso intrapreso», riflette Cristiano Gori, fondatore del Naa, giornalista e docente di Economia sociale all’Università Cattolica. «Ci sono stati i tagli ai Fondi sociali nazionali e in particolare al Fondo per le non autosufficienze, poi c’è la percezione che lo Stato non intenda aiutare le Regioni nello sviluppo di questi servizi, oltre all’impressione di non poter spostare risorse da altre voci del bilancio regionale». Rinunciando ai percorsi di riforma avviati, spiega l’esperto, «si vivrà un ritorno al passato e un ulteriore consolidamento del modello tradizionale di welfare, fondato su trasferimenti monetari e delega alla famiglia».

La giungla delle soluzioni
Va detto che le strutture residenziali, pubbliche o private convenzionate, vengono finanziate grazie al Fondo sanitario nazionale, che non ha subìto tagli. Ma quanti anziani riescono ad avere un posto letto spesato dallo Stato? I dati ministeriali illustrano che complessivamente le residenze assistenziali in Italia hanno una capienza di 287.532 posti letto, 180.282 garantiti dalla gestione pubblica e 171.445 a gestione privata. A censire, per la prima volta, l’intero sistema delle case di riposo è stata l’Auser, che a fine marzo ha pubblicato la prima ricerca nazionale sul settore. Addentrandosi in una vera “giungla” di situazioni: tra Rsa (residenze per anziani non autosufficienti) ed Ra (case di riposo in senso stretto, comunità alloggio) si giunge a 6.715 strutture. Non tutte sono censite a livello regionale, non tutte sono accreditate (circa il 63% ha effettuato la procedura di accreditamento).
I risultati di questa eterogeneità si traducono in «disparità di trattamenti da Regione a Regione, liste d’attesa estremamente lunghe nelle residenze accreditate dove è possibile ottenere un’integrazione della retta, scarsi controlli da parte delle amministrazioni regionali», commenta il curatore della ricerca, Francesco Montemurro. Riguardo ai costi, la media si attesta sui 1.400-1.500 euro mensili, ma in città come Roma e Milano possono anche superare la soglia dei 2.500-3.000 euro. «Non c’è un problema di riequilibrio tra domanda e offerta, come

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