Non profit

Dalla città fortino alla città ospitale: solo così si può curare la sofferenza urbana

Benedetto Saraceno

di Marco Dotti

le nuove problematiche delle città, legate alle migrazioni
e alla globalizzazione. Mettendosi in gioco “sul campo”Psichiatra di formazione, Benedetto Saraceno per oltre 12 anni ha diretto il Programma di Salute Mentale della Organizzazione Mondiale della Sanità a Ginevra. Oggi è impegnato su un nuovo fronte, quello dell’esclusione sociale. Lo fa con SOUQ, il Centro Studi sulla Sofferenza urbana che coordina assieme a don Virginio Colmegna, Silvia Landra e Marzia Ravazzini.
Professor Saraceno, che cosa l’ha spinta alla ricerca e al lavoro sulla “sofferenza urbana”?
Devo partire da lontano, e non posso che rispondere ricordando – soprattutto a me stesso, per un debito di riconoscenza e come prova di umiltà – di essere stato un discepolo di Franco Basaglia. Ho lavorato con lui a Trieste, negli anni più “caldi” della riforma del sistema psichiatrico italiano. Quello di Trieste non solo “è stato” ma tuttora è uno straordinario laboratorio di cittadinanza attiva: la pratica della cura coniugata al valore concreto della libertà. Certamente non possiamo limitarci a quanto era valido e innovativo trenta anni fa. Dobbiamo guardare e andare avanti, ponendoci un problema che va oltre la psichiatrica perché la sofferenza urbana è un concetto dallo spettro molto più ampio, sul quale si riflettono problematiche nuove, legate alle migrazioni o alla globalizzazione, oltre che al fenomeno di trasformazione del tessuto e, direi, anche del vissuto urbano.
Questo non significa, però, escludere che disagio e malattia siano componenti possibili di una sofferenza urbana caratterizzata, sempre più, da forme di fragilità psico-sociale?
Per nulla, nessuno dice questo. Bisogna però comprendere che una città produce sofferenza nelle forme della malattia mentale, ma anche in altre forme che vanno dalla marginalità alla vulnerabilità all’esclusione. Sono forme contigue, anche se diverse le une dalle altre. La città pone dei problemi rispetto a delle popolazioni sofferenti per malattia, per esclusione, per marginalizzazione, per stigmatizzazione. Per questo ha senso parlare di sofferenza urbana: perché vogliamo uscire dal mondo sanitario per ribadire che nelle dinamiche urbane ci sono problemi, come quelli dell’immigrazione o della disoccupazione, che meritano tutt’altro ascolto e tutt’altra attenzione. Questa attenzione letteralmente “chiama” alla responsabilità diversi attori della vita di una città. La sofferenza urbana non è questione di tecnici puri, dal giudice al poliziotto allo psichiatra di strada, che si limitino, magari con diligenza, ognuno al proprio ambito. Se invece di mettere in rete queste vulnerabilità se ne cavalcano gli aspetti più facili e deleteri, alimentando paure, rancori, odio si ha “malgoverno”. E cavalcare l’immaginario più regressivo della città significa non produrre una governance dei problemi. Le pratiche di criminalizzazione e di stigmatizzazione non sono risposte adeguate al problema, a volte sono parte del problema stesso. Per questo dobbiamo uscire dalle gabbie nelle quali più o meno consapevolmente ci rinchiudiamo. Dobbiamo stare sul pezzo, metterci in mezzo, criticare certo ma soprattutto praticare. Il lavoro sul campo, pratico e culturale è di necessario complemento e arricchimento al discorso di Basaglia.
Che cosa ha spinto lei a “mettersi in mezzo”?
Io credo che si possa fare l’intellettuale in due modi. Producendo una conoscenza che descrive la realtà, o producendo una conoscenza che riscrive la realtà. Ossia, che cerca di cambiarla. Basaglia mi ha insegnato questo e questo mi hanno insegnato le tante persone che ho incontrato sulla mia strada, non da ultimi il Cardinale Martini e don Colmegna. Non credo che il ruolo di un intellettuale sia quello di un notaio dell’ordine costituito.
Lei propone dunque una visione della funzione intellettuale – alquanto screditata, di questi tempi – che turbi, in qualche modo, l’ordine del sentire comunemente accettato?
Io faccio semplicemente quello che vedo fare da don Colmegna a Milano o da Franco Rotelli a Trieste. Sono intellettualti che non descrivono, ma riscrivono, inscrivono, vivono il destino del nostro essere in comune. E così facendo, chiaramente, turbano un ordine delle cose che si vorrebbe immutabile e perennemente votato al grigio. L’ordine costituito si trova, oggi, di fronte a tre sfide diverse. L’ordine della ragione viene sfidato dalla malattia mentale, quello dell’identità etnico-cultural-religiosa è sfidato dall’immigrazione e, infine, quello dei comportamenti ritenuti socialmente accettabili è sfidato dai comportamenti spesso inappropriati dei giovani. Il problema è capire che l’unica alternativa tra l’accogliere queste tre sfide con un atteggiamento di governance intelligente è il manganello. Da che parte stiamo, noi? Dalla parte di chi vuole governare o dalla parte di chi vuole manganellare? Qual è la nostra idea di città? Una città fortino, città ospedale o una città ospitale, aperta alle sfide e alla risoluzione dei problemi? Per offrire risposte a quesiti come questo occorre, prima di tutto, imparare con umiltà a formulare le domande ed è quello che, nel nostro piccolo, cerchiamo di fare.

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