Welfare

Potevo esserci anch’io su uno di quei barconi

Migranti e cinismo

di Redazione

Mentre i potenti del mondo se la cantano e se la suonano sull’intervento in Libia, sull’accoglienza e sullo smistamento di “materiale umano”, continua impassibile la pena della disperazione e della sofferenza di tanti “esseri umani”.
Non riesco a condividere il cinismo e la paura di molti italiani davanti all’arrivo dei profughi sulle nostre coste. Credevo che davanti alla guerra, alla fame e alla disperazione di uomini, bambini, donne spesso incinte, non avrei dovuto sorbirmi discorsi non solo di politici, ma anche di tanti amici, sulla paura di questa apocalittica “invasione”, o “tsunami”.
Avrei tanto voluto vedere solo atteggiamenti decisi e solidali di accoglienza, che non si dovrebbero negare a nessuno, ancor di più a gente che scappa da guerre e carestie. E pensare che su uno di quei barconi sarei potuta esserci anch’io, visto che i miei genitori, prima di stabilirsi definitivamente in Italia, vissero per circa due anni a Tarablos (Tripoli), e spesso mi hanno raccontato che la mamma era indecisa se partorirmi in Libia o in Egitto. Grazie a Dio, alla fine ha prevalso la seconda opzione. E meno male che più tardi trionfò il cuore sulla ragione anche nella scelta del Paese dove far crescere i propri figli, visto che i miei si erano perdutamente innamorati del Belpaese.
Insomma, avrei potuto essere anch’io lì, su una di quelle barche stracolme della miseria di anime traghettate in un viaggio dove non sempre la destinazione è certa. Mi sono chiesta, come madre, come si fa a mettere a rischio – oltre alla propria vita – anche quella dei propri figli, in questi viaggi della disperazione. La mia amica Samira, etiope-sudanese, è arrivata in Italia su uno di quei barconi cinque anni fa. Raccontandomi aneddoti sulla sua straziante vicenda di “merce umana”, mi disse: «Quando non hai nulla, la tua vita e quella dei tuoi figli non vale nulla per nessuno». Non ho saputo contraddirla.

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