Volontariato

Ragazzi, se volete imparare la bellezza salite su un palco

Manu Lalli

di Barbara Marini

Manu Lalli non ha la televisione. È cresciuta tra Fiesole e Firenze, nei tempi in cui una certa cultura pareva essere la salvezza. Era una bimbetta quando un giorno, in classe, entrò un uomo coperto da passamontagna che urlava: «Fermi tutti! questa è una rapina!». Era l’animatore teatrale, che divenne poi il suo maestro e padre artistico, Alfredo Puccianti. Ora è una donna e madre, dagli occhi azzurri vitrei, che si infiammano solo quando parla dei suoi ragazzi. È così timida da non voler calcare le scene, e dopo anni di lavoro nei laboratori teatrali è da tempo direttore artistico e regista.
Il suo mondo è il “teatro sociale”: lavora infatti con le scuole e con i ragazzi in difficoltà fisiche e psichiche. Collabora con il Comune, con il Maggio Musicale Fiorentino (per insegnare ai bambini ad amare l’opera) e con le Asl del territorio e soprattutto con l’Istituto Elsa Morante di Firenze, che è rivolto a futuri operatori del sociale, dove gli alunni “normali” vivono in classe con quelli “disagiati”. Da quasi vent’anni, dirige l’associazione Venti Lucenti che si occupa di diffusione della cultura teatrale attraverso molteplici strumenti. Ultimo progetto portato in scena, il Sogno di una notte, tratto dal quasi omonimo Sogno di William Shakespeare. Un allestimento travolgente, emozionante. Sì, perché gli spettacoli di Manu Lalli non hanno niente della recita scolastica di fine anno, ma sono opere “da cartellone”, con scenografie e costumi eccellenti su testi di riferimento tra i più “alti”. E, sul suo palco, insieme agli attori professionisti, ci sono ragazzi in carrozzina, down e ciechi, ma nessuno, tra il pubblico, nota la differenza. «Non è un teatro per ragazzi speciali, è teatro e basta», dice lei, portando sul giusto binario la nostra chiacchierata.
Non le pare di osare un po’ troppo? Usare i testi di William Shakespeare o la tragedia greca per ragazzi con disagi psichici, o fisici, o con vicende familiari drammatiche intorno?
No, questo non è osare. Perché il confronto con i grandi della letteratura mette in moto dei meccanismi mentali che costringono i ragazzi a capire qualcosa di sé e del mondo: i grandi temi li portano a un livello più profondo; non sono io che li conduco, ma queste opere che hanno dentro già tutto l’umano grido, e che pur provenendo dal passato leggono il loro presente. Quando anni fa abbiamo messo in scena la Medea ci fu la strage dei bambini di Beslan, e lì certe domande si imponevano. Il testo teatrale era l’occasione per tirarle fuori e guardare a quei fatti insieme, dentro una relazione affettiva e costruttiva. Ora stiamo preparando Sogno di una notte di mezza estate: l’amore, la follia di Puck irrompono come un avvenimento che ti costringe a sentire l’urto della realtà. Puck cambia le cose, è il Destino, e porta la luce con il suo amore. Questa creazione condivisa è ciò che desideriamo insegnare. Più che la “prima” in sé, per i ragazzi è importante il percorso che compiono, queste domande, questo paragone buono con la loro vita: io assisto ogni volta al loro cambiamento, alla loro affezione, il percorso che facciamo è una forma di amore. Shakeaspeare, come la tragedia greca, ti mettono in condizione di riflettere.
Pare che ora vada di moda insegnare la giustizia, le buone pratiche, la civile convivenza, la legalità. È stata un po’ messa da parte l’educazione estetica, in cui i ragazzi possano intravedere qualcosa di così bello da essere vero. Cosa ne pensa?
Sono assolutamente d’accordo. I ragazzi oggi sono talmente disabituati ad una educazione alla bellezza che se qualcuno non gliela insegna non potranno mai pretendere che il mondo sia bello. Insegnare l’arte costa fatica e necessita di tempo per conoscere. Anzi, direi che non esiste conoscenza senza tempo. Ma nel teatro la bellezza è generata dalle relazioni, da quello che accade alle prove, dal testo, dalla vita che il teatro stesso è.
Igor Strawinsky ci dice che nel mettersi al lavoro, il limite delle sette note è l’unica strada di fronte alle infinite possibilità, all’abisso di libertà del “tutto è permesso”, per vincere la vertigine. Il limite diventa insomma occasione di creazione, di libertà. I disagi fisici del corpo, dello spirito dei ragazzi che lavorano con voi, i limiti psichici, come vengono superati nel teatro?
Se cerchi di trattarli come persone “normali”, cioè se non guardi il loro limite, non lo vinceranno mai. Ma perché questo accada, se gli chiedi di buttarsi a terra, lo devi fare prima tu. Se non ti immedesimi con loro, loro non ti seguiranno: gli puoi chiedere di essere sinceri se tu sei sincero, sei vero con loro. Di amarsi per come sono, se tu li ami per come sono. Se tu fai finta, loro se ne accorgono subito. Quando un ragazzo ti segue e supera il disagio che lo attanaglia, in quel momento non sta recitando, in quel momento lui “è”. Il pentagramma allora è l’handicap: ci siamo inventati di tutto per rendere bella una carrozzina sul palco, non l’abbiamo mai nascosta. Abbiamo imparato a contare i passi con i ciechi, per capire i movimenti, abbiamo riso e abbiamo pianto con loro… Insomma, se tu li stimi, loro impareranno a stimare i loro limiti, che nella creazione artistica sono fondamentali.
In questo momento di culto della personalità, i laboratori di teatro fatti per esempio a scuola rischiano di ridursi a puro narcisismo, a protagonismo autonomo. Perché con i suoi ragazzi non è così?
Il punto è questo: è il gruppo che produce l’evento, non la capacità di un singolo. Tutti devono essere belli perché è solo dalla condivisione che nasce la bellezza e tutti devono dare il massimo. L’emozione è come l’innesco perché questo accada. È lì che il ragazzo si espone, è lui che rischia, è lui che deve vedere il bello. Quando un ragazzo si scopre bello – immagina una ragazzina adolescente sulla sedia a rotelle che pesa cento chili, come si sente – esce dal teatro che è un gigante. Quando guardano le foto degli spettacoli non si riconoscono, e mi dicono: «Ma quello sono davvero io?».
Perché la cultura sembra aver perso questo innesco, oggi? Perché è così ideologica?
Primo, perché vuole dare delle risposte, mentre dovrebbe suscitare domande. Questo è un atteggiamento anti estetico, rispondere senza attendere la domanda è una manipolazione. La realtà culturale di oggi è una merendina preconfezionata. Imparare a domandare invece fa riscoprire il senso di quello che incontri. Secondo motivo: si semplifica tutto fino a ridurre i contenuti. Un bambino può imparare Il Ratto del Serraglio in tedesco, l’ho visto con i miei occhi, ma le agenzie culturali e la scuola stessa hanno talmente abbassato l’orizzonte che non si accorgono che i ragazzi sono vivi, possono imparare tutto, senza che noi gli diamo la merendina. Sanno perfettamente riconoscere la bellezza. Provate a semplificare Dostoevskij: alla loro età, già capiranno quello che c’è da capire, poi da grandi lo rileggeranno e capiranno di più. Semplificare è rendere ridicolo. Un percorso attento e sincero è fondamentale, come camminare insieme sul sentiero per raggiungere la montagna.
C’è un’approccio psicologico all’esperienza con i ragazzi con disagi: il teatro come terapia, come se non ci fosse la possibilità per loro di una conoscenza artistica. Lei vive questa contaminazione nella metodologia che usa?
Io non ho mai avuto l’idea di fare la psicologa con i miei ragazzi: ognuno deve fare il suo mestiere, il teatro è relazione e non ho nessuna intenzione di investigare in un ambiente che non mi appartiene. Quando un ragazzo è incapace di relazione, gira intorno a sé, nella stanza per mesi, e poi un giorno ti chiede: «Mi vuoi bene?». È un fatto che travolge la mia esistenza. Il confronto con l’altro è sempre faticoso, e ci vuole tempo. Il tempo è indispensabile per conoscersi davvero, per entrare in relazione arrivando in profondità.
Perché fa tutto questo?
Io ho avuto un grande regalo dalla vita, un Maestro. È questo dovere di gratitudine che mi fa vivere così.

Questa è Manu Lalli, e il teatro con questi ragazzi è la sua vita. Il tempo è finito, discutiamo in libertà, sulla definizione di “teatro sociale” e ci pare, dopo quello che ci siamo dette, che qualsiasi definizione sia riduttiva. Proviamo a riassumere: ci vuole un regalo, un maestro, ci vuole fatica, ci vuole tempo, ci vuole un’amicizia che diventa un modo di amare l’altro, ci vuole un grande che ti apra il cuore con le sue parole. E poi ci vuole un palcoscenico.

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