Che cosa ci faceva Marco Revelli, il 17 marzo scorso, sul palco del teatro di Bra, a far la parte del Beato Cottolengo? Lui, laico senza tentennamenti, con un po’ di sangue valdese nelle vene, e con un passato da consigliere comunale di Rifondazione Comunista. La domanda su quella insolita performance, per la festa dell’Unità d’Italia, non è fuori luogo.
Professore, cosa ci faceva su quel palco?
Era un invito inaspettato del Comune di Bra. Cottolengo è nato lì, e gli amministratori hanno pensato che ricordare quel grande personaggio fosse il modo migliore per festeggiare l’Unità d’Italia. Sul palco ero insieme a Massimo Bubola, che con la sua chitarra cantava De Andrè. Io non conoscevo il Cottolengo. Me lo sono dovuto studiare, ma è stata una lettura molto istruttiva. Alla fine ho legato i suoi testi con alcuni passi del rapporto della Commissione povertà.
Ma cosa l’ha colpita del Cottolengo?
Ho voluto raccontare l’inizio della sua storia di impegno sociale: accolse una donna colpita da tbc, rifiutata dalla maternità dell’ospedale perché malata e rifiutata dal sanatorio perché gravida. Lui l’accolse come ultima degli ultimi, e da lì iniziò la sua avventura. Per questo il nesso con i rom e i clochard di oggi, i rifiutati da tutti, funzionava benissimo.
Si è chiesto che cosa muovesse una persona così?
Una vocazione personale sollecitata da una domanda concreta incontrata. Un’istintiva passione verso gli altri che lo fece uscire dalla routine.
La vocazione non è questione di fede?
No, non credo che ci sia un rapporto di causa-effetto tra la fede e la santità. Io che non ho fede penso che quello in cui si crede appartenga alla soggettività di ciascuno e non sia un fattore discriminante nell’esperienza di santità.
Lei è laico, però accetta la categoria di santità. Non è un paradosso?
No. Io ho una forte diffidenza in rapporto alla santità come istituzione, non con la santità in sé come esperienza personale. Diffido dei popoli che hanno il culto dei santi, perché lo ritengo un modo di evitare la responsabilità personale. È il rapporto con la figura del santo si esaurisce nella ricerca del protettore: non s’instaura un rapporto con quel che il santo ha fatto. È una cultura della mediazione che non accetto: un’offerta di fedeltà in cambio della protezione.
È anche vero che molte delle minoranze che lei difende spesso sono radicate in una cultura di questo tipo. Ad esempio i rom…
Ma io non li prendo certo come modello di una cultura civica. Sono legati a un familismo che non accetto, a una visione esclusivista che isola i gruppi. Il riferimento al santo in quelle comunità è un fattore segregante rispetto agli altri. Il fatto che io difenda i rom e i loro diritti, non vuol dire affatto che approvi i loro modelli.
Ma allora cos’è per lei il santo?
È colui che indica la strada, che ha una capacità di sguardo più alto del proprio privato interesse. È uno che è capace
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