Non profit
Siamo cardiochirurghi e lo facciamo col cuore
Vitali Pak - Aiutare i bambini onlus
Uzbeko, cardiochirurgo pediatrico che da dieci anni lavora in Italia, tre volte all’anno torna da volontario nel suo Paese (ma anche in Kazakistan, Ucraina, Romania…) per operare tanti bambini cardiopatici che laggiù non avrebbero speranzeDice il dottor Pak che «il cuore di un neonato è come un piccolo mandarino». Se gli domandi cosa significa averlo tra le dita, si tira però subito fuori dal sentiero scivoloso delle emozioni e risponde da cardiochirurgo: «È una struttura molto piccola, per operare bisogna lavorare con gli occhiali da ingrandimento».
Originario dell’Uzbekistan, 38 anni, sposato, 2 figli, da dieci anni in Italia, Vitali Pak è cardiochirurgo pediatrico e lavora come consulente presso gli Ospedali Riuniti di Bergamo. Il talento professionale lo ha condotto fin qui; la vocazione del volontariato, invece, lo riporta periodicamente indietro: di nuovo in Uzbekistan, poi in Romania, Ucraina, Kazakistan. In tutti i Paesi in cui strutture e professionalità rendono impossibile operare al cuore un bambino, decretando per tanti piccoli malati una condanna ingiusta e senza appello.
Nel dicembre scorso Pak era a Tashkent per la prima missione pediatrica organizzata in Uzbekistan dalla fondazione milanese Aiutare i bambini, in collaborazione con gli Ospedali Riuniti di Bergamo, nell’ambito di un programma definito con il primario di cardiochirurgia pediatrica, il professor Lorenzo Galletti, che nei prossimi tre anni porterà ogni sei mesi la stessa équipe in loco per continuare ad operare e a formare il personale locale. Lo stesso verrà fatto anche in Kazakistan.
Quando è cominciato il suo impegno come medico volontario?
Ho iniziato alcuni anni fa, partecipando alle missioni organizzate dall’associazione del professor Vittorio Vanini, The Heart of Children, in diversi Paesi dell’Est Europa. Poi ho incontrato la Fondazione Aiutare i bambini, con cui ho già fatto diverse missioni.
Come si è cementata la relazione con la fondazione?
Fin dal primo incontro ne ho apprezzato la serietà, l’eccellente professionalità e la capacità organizzativa. Inoltre, l’accordo recentemente siglato con l’ospedale di Bergamo presenta un innegabile vantaggio, che va a beneficio dei piccoli malati: consente a un’intera équipe di partire in missione. Ciò significa mettere in gioco una squadra che si conosce già, che condivide da tempo le stesse metodiche, che insomma si capisce al volo.
Ogni quanto parte per una missione?
Due o tre volte l’anno, per missioni di circa una settimana.
Qual è l’aspetto che più le piace di questo impegno?
Amo il mio lavoro e mi dà un’enorme soddisfazione avere le competenze e l’opportunità di aiutare bambini che non hanno la possibilità, nel luogo in cui vivono, di essere operati e guariti. L’altro aspetto eccezionale di queste missioni volontarie è l’incontro con i colleghi, lo scambio professionale e umano con altre équipe che chiedono di essere formate e supportate per sviluppare, anche nel loro Paese, un accesso adeguato alle cure.
Durante la missione a Tashkent avete selezionato due medici da formare a Bergamo, all’International Heart School.
Sì. È la struttura, diretta dal professor Lucio Parenzan, dove io stesso, dieci anni fa, grazie a una borsa di studio ho frequentato un corso di formazione avanzata. Ritengo che sia un’opportunità straordinaria. Quando siamo in missione per noi è possibile, direttamente sul campo, scegliere i medici più esperti e motivati. Abbiamo invitato un cardiochirurgo e un anestesista, che torneranno in Uzbekistan con una formazione di alto livello in ambito pediatrico.
C’è un incontro, o un’esperienza, che ha particolarmente segnato la sua attività di volontario?
Due anni fa, durante una missione in Kazakistan sempre con Aiutare i bambini, abbiamo visitato una bambina di 6 mesi con una cardiopatia in stato avanzato. Non era in lista per un intervento programmato, ma se non fossimo intervenuti sarebbe morta entro poche settimane: pesava solo 4 chili. Si è trattato della prima operazione al cuore mai realizzata, in quell’area, su una bambina così piccola. È andata benissimo: dopo due giorni la piccola prendeva già il latte dal biberon e oggi è in ottima salute.
Ricorda il suo nome?
Ma certo, si chiama Lianna.
È difficile coinvolgere altri colleghi in attività di volontariato come la sua?
Piuttosto direi che è difficile tenerli lontani! Abbiamo tantissime richieste, non solo da parte di colleghi medici ma anche di infermieri, da Bergamo e da altri ospedali, come il Niguarda di Milano, con cui già collaboriamo in queste missioni. Tutti accomunati dal desiderio di fare al meglio il proprio lavoro in contesti in cui non ci sono le stesse opportunità di accesso a cure altamente specialistiche.
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