Famiglia
La solidarietà, come la musica, è una cosa da prendere al volo
Paola Turci
Ha scoperto che la musica può essere impegno solo quando l’impegno l’ha travolta. È scesa in piazza non contro “il drago” ma contro «le donne che non si credono uniche». E ora che ha riscoperto il bello della rima
cuore-amore, alle sue “piccole donne” insegna che…Erano “stanchi e soli” quei bambini di un lontanissimo Sanremo (era il 1989…). Oggi sono cresciuti, così come è maturata Paola Turci, che li canta come allora e che, volgendosi indietro, riconosce: «Ho avuto il privilegio di cominciare questo lavoro con una canzone, Bambini, che mi ha aperto la mente, mi ha fatto cambiare». Tuttavia, non è per via di quell’exploit – vinse nella categoria Emergenti, e iniziò la sua scalata al successo – che la cantautrice ha intrapreso la via dell’impegno: «Più che uno strumento sociale, per me la musica è la base di un dialogo, è una forma di accoglienza».
Un’esperienza che l’ha segnata…
Quando mi sono presentata al pubblico ero molto giovane, mi piaceva cantare, sognavo che diventasse il mio lavoro. Poi mi chiamò l’Unicef: volevano partecipassi alla Giornata mondiale sull’infanzia, al teatro Argentina di Roma, cantando appunto Bambini. Fu un momento bellissimo. Fu lì che capii che la musica aveva un potenziale veramente enorme, capace di andare al di là.
Gli eventi musicali a scopo benefico spuntano come funghi, ultimamente. Non c’è il rischio che la musica, anziché “buona”, si riduca a essere “buonista”?
Quando si tratta di unire le forze per una causa importantissima, come è stato nel caso dei concerti per aiutare l’Abruzzo dopo il terremoto, è stato giusto farlo col cuore: in quell’occasione tutti gli artisti coinvolti avevano un unico scopo, non apparire, ma portare a casa un risultato. E pazienza se poi c’è sempre il rischio che qualcuno strumentalizzi. Anche di Sting, quando si impegnava per l’Amazzonia, si diceva che sfruttasse la causa per farsi pubblicità…
Qual è il modo giusto, per un cantante, di “impegnarsi”?
Preferisco pensare che ci siano modi diversi d’intervenire. Una volta entrai per l’ennesima volta in un carcere. Avevo per l’ennesima volta rifiutato le telecamere. Mi dissero: «Perché non le vuoi? È importante che ci siano: così si racconta quello che c’è dentro». È vero, è un’osservazione che mi ha fatto cambiare idea. Insomma, la cosa sbagliata è dare giudizi così, in astratto. C’è chi per buone cause stacca assegni e non lo dice a nessuno. C’è chi fa un certo tipo di musica che si sposa poco con finalità sociali, ma poi si trova di fronte un’occasione d’impegno e la prende al volo…
E cos’è, per lei, l’impegno?
È la possibilità di parlare di ciò che sento.
Nel corso della sua carriera ha collezionato un sacco di collaborazioni con colleghi molto diversi tra loro: Vasco Rossi, Luca Carboni, Carmen Consoli… perché questo bisogno di condividere?
Sono legami preziosissimi. Immaginatevi la solitudine in cui vive un cantante. È da solo. Fa i conti con se stesso. Ha momenti di fragilità immensi. Poter scambiare, collaborare, condividere… è come se in una casa piccola piccola ti venissero a trovare gli amici e si fermassero lì per ore a parlare delle cose che ami. Sei nel tuo mondo. Sei felice. Senti che tutto quello che fai ha un senso doppio. E in quel momento cresci.
Così la fragilità può trasformarsi in forza?
Nel mio caso i momenti di fragilità sono accompagnati da un pessimismo non dico cosmico, ma bello forte. Invece la collaborazione e l’incontro tolgono il pessimismo, c’è una qualche fiducia anche in quello sciocco esercizio di misurarsi. Qualche volta riesci a uscirne bene. E la fragilità, che pure rimane, può diventare un momento per tirar fuori cose nuove. Anche per gli ultimi due dischi, in cui ho collaborato con molte donne, è stato bellissimo sentire il loro «sì, lo facciamo».
A proposito di donne, cosa pensa delle recenti manifestazioni?
Sono andata anch’io in piazza. Non per protestare contro “il drago” attorniato da donzelle, ma per dire “no” a questo modello di donna, tutto esteriorità. E perché vorrei che i rappresentanti istituzionali dessero un esempio “istituzionale”. Ma questo è un discorso politico, e non ci voglio entrare. Però voglio continuare a lottare per quella che chiamiamo “società civile”. Dico che voglio, non “vorrei”, ma voglio ritrovare un modello di donna non superficiale. Non siamo fatte solo di corpo: abbiamo una sostanza dentro che è fondamentale, ci fa andare avanti e ci fa crescere. Non voglio che i miei figli o nipoti debbano crescere con l’idea che se hai un bel corpo allora sei forte.
È contro l’omologazione?
Sembra che ci piaccia diventare “cose fatte in serie”, perdere la nostra individualità. Ma il modello sociale che invoco è quello di una donna brava, sana, eticamente forte, con principi morali. E le nuove generazioni devono essere messe su questa via. Ho due nipoti: una ha 10 anni e ha già partecipato a un concorso internazionale di poesia. Insieme abbiamo letto la Dickinson, la Merini o le poesie divertenti di una raccolta intitolata Rime tempestose, scritte da donne. Non è male che si faccia fin da piccoli un simile allenamento intellettuale…
A quali progetti sta lavorando?
Sto scrivendo l’ultimo disco della mia trilogia. Il terzo, dopo Attraversami il cuore e Giorni di rose, dedicati rispettivamente all’amore e alle donne. Un tempo detestavo le rime “amore-cuore”. Oggi ammetto che mi piace scrivere d’amore. Probabilmente si intitolerà Le storie degli altri, che è poi il titolo di una canzone dell’album. Ogni disco di questa trilogia è composto da 8 canzoni, di cui una cover. In questo, la cover sarà un brano di Giorgio Gaber, ma ancora non ho scelto quale.
Bello l’omaggio a Gaber…
Con Modugno e De Andrè, è uno dei miei maestri. Fra i tre, è quello che mi piace più cantare e soprattutto leggere.
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