Non profit

Per caso ho “inventato” le stelle di Natale

Rosalba Di Filippo

di Marina Moioli

Nel 1985 al Centro di ematologia di Reggio Calabria servivano 2 milioni di lire per una cappa sterile. Che fare? Rosalba in un giorno è riuscita a vendere 500 piantine che, oggi, sono il simbolo dell’attività di volontariato di Ail. E non si è più fermataLa storia di Rosalba Di Filippo è la dimostrazione di come da una piccola idea possono nascere grandi cose. Napoletana (del 47), vive a Reggio Calabria, ha quattro figli e due nipoti, e nel 1985 ha avuto un’idea (piccola): vendere le stelle di Natale per raccogliere fondi a favore dell’Ail. Al Centro di ematologia di Reggio Calabria occorrevano due milioni di lire per comprare una cappa sterile, e lei vendendo 500 piantine riuscì a raccoglierli in un solo giorno. L’anno dopo il numero delle piantine era triplicato, e dopo due anni erano arrivate a 4.500. L’idea arrivò sul tavolo del Consiglio nazionale Ail… e il resto è storia. Oggi la voce “stelle di Natale” porta nel bilancio dell’associazione quasi 5 milioni di euro netti. «Io mi commuovo ancora adesso quando vado a Firenze, a Milano, a Trieste e vedo le mie stelle di Natale», commenta Rosalba.
Com’è stata la sua “prima volta” nel volontariato?
Me ne parlò agli inizi degli anni 80 una signora della buona società reggina, Adriana Tibaldi, che era all’epoca la presidente della sezione. Mi raccontò dell’associazione e del piccolo gruppo di persone che l’aveva fondata qualche anno prima. L’acronimo Ail mi sembrava una sigla sindacale, e la parola leucemia evocava un mio ricordo di bambina: la mia maestra di seconda elementare era infatti improvvisamente scomparsa, vittima di questa malattia.
Come è cominciato l’impegno di volontaria?
L’incontro decisivo è stato con il professor Alberto Neri, fondatore del reparto di Ematologia all’ospedale di Reggio Calabria. Fu lui a convincermi con il suo impegno di scienziato dell’importanza che una associazione di volontariato – quindi non di malati – poteva rivestire per lo sviluppo della ricerca medica e per l’assistenza ai pazienti e alle loro famiglie. Poi ho conosciuto Caterina Filippone Muscatello, storica volontaria Ail, e siamo diventate praticamente “sorelle”. Lei sempre presente in reparto, a contatto con i pazienti; io impegnata ad attualizzare i bisogni emergenti, le istanze dei malati e dei sanitari. Sono stati anni di relazioni, presentazioni, lunghe serate trascorse con i consiglieri e gli altri volontari a pensare, discutere, fare conti, progetti sempre più avanzati a sostegno della ricerca, della struttura e dei pazienti.
Quanto tempo dedica all’Ail?
Oggi è un’esperienza così totalizzante che è impossibile quantificare il mio impegno quotidiano. Da quando sono in pensione la mia presenza in reparto è costante, anche se la programmazione, il controllo e la gestione di tutte le attività della nostra sezione assorbono molto del mio tempo.
Cosa le piace del suo impegno?
Non è soltanto il fatto di poter essere utile ai malati, di incoraggiare e sostenere la ricerca, di aver creato anche, nella nostra realtà meridionale, una sorta di impresa sociale che dà lavoro a quanti vengono in contatto con l’associazione: collaboratori, borsisti, fornitori. L’aspetto che mi piace di più è quello di aver dato vita, nel corso degli anni, a una rete di amicizie vere, di persone che camminano nella stessa direzione, con un unico scopo, pronte ad impegnarsi nei momenti necessari, a piangere nelle sconfitte, ma anche pronte a gioire insieme, a ritrovarsi, magari davanti a una pizza.
E quali sono i principali ostacoli?
Nella mia attività di volontariato, direi nessuno. Come presidente di sezione, quando chiedo qualcosa alle istituzioni normalmente trovo porte aperte. Forse l’unica cosa è che vorremmo una struttura ospedaliera più adeguata, più moderna e aspettiamo fiduciosi che gli amministratori mantengano le promesse…
Cosa le lascia, ogni giorno, questa esperienza?
Facendo la volontaria ho affinato le mie doti di mediazione e ho imparato soprattutto a saper “tacere” davanti alla sofferenza. L’aspetto da privilegiare è sempre il contatto con il paziente: è quello che ti dà la carica per andare avanti, le motivazioni. L’impegno associativo si è riverberato sulla vita di tutta la mia famiglia. I miei figli, dal mio agire condiviso con mio marito, hanno imparato l’amore per gli altri, l’orgoglio di sentirsi utili e, soprattutto, il dovere che impone a ognuno di operare per il miglioramento dell’intera società.
Consiglierebbe a un amico di diventare volontario?
Consiglierei e ho consigliato l’impegno come volontario, ma solo a persone con indispensabili doti di sensibilità, umiltà, educazione e serietà. Sono convinta che il resto si impara. A un amico direi che quando assume contorni così totalizzanti, il volontariato ti cambia e ti riempie la vita. Perché si incontrano le personalità più disparate e le professionalità più diverse; persone di tutte le età, dai 18 ad oltre 70 anni. Tutti uniti da un’amicizia speciale che diventa uno sguardo d’insieme, un punto focale, un fil rouge.


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