Volontariato

Mucca pazza è di nuovo in tavola

Un allarmante rapporto dell’università di Torino riapre il caso della carne infetta. La situazione è fuori controllo?

di Gabriella Meroni

D ov?è finita la mucca pazza? Meno di quattro anni fa terrorizzava i consumatori italiani, metteva in crisi i macellai, paralizzava le vendite di carne bovina. L?epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (Bse), scoppiata in Gran Bretagna, monopolizzò le cronache del 1996 e provocò il blocco totale delle esportazioni di animali inglesi (poi limitato alle sole carni) durato più di due anni in Italia, in Francia non ancora cessato e in Germania revocato solo la settimana scorsa. Da noi la psicosi durò qualche mese. Poi l?allarme si spense: le rassicurazioni delle autorità sanitarie ci convinsero che l?emergenza era cessata. Una chiusura affrettata di indagini imbarazzanti? ?Vita? è entrata in possesso di elementi che potrebbero riaprire il caso. E a fornirli non sono né animalisti né ecologisti, ma serissimi scienziati dell?Università degli studi di Torino, che in un recente studio disegnano un quadro impressionante sulla diffusione del contagio di Bse, ammettendo innanzitutto che è ormai certo che la sindrome bovina sia direttamente trasmissibile all?uomo (in cui provoca una nuova, grave variante della malattia di Creutzfeldt-Jacob); sostenendo che in molti bovini la Bse si presenta ormai asintomatica, cioè senza i segni esteriori che la fanno riconoscere dai veterinari; e che quindi non è da escludere che animali malati ma privi di sintomi, in pratica portatori sani, finiscano nella catena alimentare, nonostante i controlli previsti per legge. Gli autori della ricerca si mettono quindi a disposizione della regione Piemonte per condurre analisi straordinarie sugli allevamenti regionali onde escludere il rischio di un?epidemia di Bse in atto. Un?ipotesi che oggi gli stessi ricercatori non si sentono di scartare. Una nuova generazione di bovini malati Che la Bse si trasmetta direttamente all?uomo è certo. Nel 1996 non si sapeva ancora, e infatti chi spegneva gli allarmi si basava proprio sull?indimostrabilità di un collegamento tra animale e uomo. Ma studi del 1999, condotti tra gli altri dal premio Nobel per la medicina Stanley Prusiner, hanno dimostrato la trasmissibilità: il prione della ?mucca pazza? è lo stesso che nell?uomo provoca una variante della Creutzfeldt-Jacob, la cui sigla scientifica è nvCJD. Dal ?96 al ?99 si sono avuti 60 casi di nvCJD in Gran Bretagna, un caso in Belgio e 3 in Francia. Tutte persone sicuramente contagiate da carne infetta. Questi casi, nota la ricerca torinese, «potrebbero però essere solo la punta di un iceberg, poiché non conoscendo il tempo di incubazione non si può stabilire con certezza il numero di persone che si ammaleranno; si può solo affermare che da 40 a 100 milioni di persone in Europa sono state esposte all?infezione». Numeri agghiaccianti. Ma come mai questa esposizione così estesa? L?allarme del ?96 non ha insegnato niente? Al contrario: nessuno può dimenticare le immagini delle vacche malate, tremanti sulle zampe, incapaci di coordinare i movimenti. Ma purtroppo l?evoluzione della Bse ha provocato una generazione di bovini asintomatici, in cui cioè i sintomi tipici sono assenti o di scarsa entità. Nei capi infetti si rilevano solo un leggero dimagrimento o una riduzione della produzione di latte, senza disturbi neurologici o agli arti. Un fatto nuovo che porta i professori torinesi a concludere così: «essendo impossibile diagnosticare tale patologia sull?animale in vita in assenza di sintomi clinici, è possibile che tali animali siano entrati ed entrino nel circuito alimentare umano rappresentando pertanto un possibile rischio per la salute del consumatore». L?Europa sta correndo ai ripari Ne sanno qualcosa gli svizzeri, che nel ?99 hanno affrontato un?insospettata emergenza mucca pazza nei loro allevamenti. Apprese le allarmanti notizie sulla nvCJD, infatti, i veterinari elvetici hanno avviato un?indagine random sui loro bovini, ed ecco i risultati: nei primi sei mesi del ?99, su 14.270 capi esaminati, 22 sono risultati positivi (due erano avviati al consumo umano); 8 su 22 inoltre non avevano manifestato alcun sintomo della malattia, che si è riusciti a diagnosticare solo con particolari esami (vedi box). Non è finita. Gli svizzeri, estendendo i dati dello screening all?intera popolazione bovina, hanno stimato che almeno 1800 animali ?portatori sani? sono finiti in questi anni sulle tavole dei consumatori. La Gran Bretagna, che pure oggi può esportare liberamente ?carni fresche?, non sta meglio. Dopo l?immissione di circa 729.000 bovini malati nella catena alimentare umana (dal ?74 al ?95), nei primi sei mesi del 1999 nel Paese sono stati scoperti 1180 nuovi casi; e visto che dal 1996 si sa che nel Regno Unito per ogni caso di Bse conclamata almeno 40 non vengono identificati perché subclinici, il numero dei casi asintomatici non diagnosticati per l?intero anno è di circa 63.800. Un numero da non sottovalutare. Nel 1998 poi scoppia un?altra emergenza, del tutto simile a quella inglese ma tenuta sotto silenzio, in Portogallo: tra gennaio e ottobre vengono accertati 66 casi, e la Commissione europea decide in data 20 novembre ?98 di vietare qualsiasi esportazione di bovini, carni e derivati. Oggi l?embargo è stato tolto, nello stesso ovattato silenzio con cui era stato imposto. In Francia da aprile inizierà l?applicazione di un programma di controlli su capi bovini a rischio senza sintomi clinici (circa 40 mila) per identificare i casi di Bse che potrebbero passare inosservati e finire nella catena alimentare. La mucca pazza dunque scuote l?Europa, che si sta attrezzando a prevenirne o minimizzarne gli effetti. In Italia i controlli sono insufficienti E l?Italia? Da noi non si è ancora fatta un?indagine seria, come è successo in Svizzera e come si farà in Francia. Ma il rischio è ben presente: lo dicono gli scienziati torinesi e lo confermano dal Centro italiano di sorveglianza sulla Bse che ha sede presso l?Istituto zooprofilattico di Torino. Anche questo Istituto, diretto dal professor Cantini, ha messo a punto un progetto di monitoraggio anti-Bse sugli allevamenti piemontesi, che si trova attualmente all?esame del Ministero della Sanità. «La nostra proposta di monitoraggio vuole colmare una lacuna della normativa attuale» dice uno dei ricercatori del Centro, la dottoressa Elena Bozzetta. «Anche l?Unione europea si è accorta del problema e sta preparando un vasto piano che prevede test immediati ai macelli. Per il 2001 dovrebbe essere tutto pronto». Sì, ma intanto noi rischiamo. La Bse in Italia c?è o non c?è? «Non possiamo escludere che ci sia» è la risposta. «Sui 101 casi sospetti esaminati nel 1999, fortunatamente nessuno è risultato positivo, ma questo non ci autorizza a stare tranquilli….» Perché? «Per la mancanza di controlli. In pratica la Bse da noi non emerge solo perché non la cerchiamo. Secondo l?Unione europea, statisticamente in Italia dovrebbero verificarsi almeno 235 casi l?anno di sospette patologie neurologiche tra i bovini, mentre a noi ne risultano, appunto, solo 101. È evidente che c?è qualcosa che non va. Dove sono gli altri 134 casi? Che tipo di patologie neurologiche presentano? Non lo sappiamo». Dunque il problema sono le mancate segnalazioni. La nostra legge, a differenza di quella inglese, non tutela affatto l?allevatore che dovesse segnalare un caso di sospetta Bse. L?allevamento ?incriminato? verrebbe sequestrato, e l?allevatore si troverebbe immediatamente sul lastrico. Un vero e proprio incentivo ad occultare i casi. Nei macelli si tagliano le teste sospette Anche nell?ipotesi peggiore – quella di un allevatore disonesto e in malafede – l?animale viene comunque controllato alla destinazione finale, cioè al mattatoio. Al macello di Milano (100 capi uccisi ogni settimana) scopriamo una procedura interessante: i bovini di provenienza nazionale vengono utilizzati per intero, compreso l?encefalo (dove si annida la Bse), ai bovini esteri invece vengono staccate le teste. «È una precauzione contro la mucca pazza» dice tranquillamente il responsabile del servizio veterinario dell?impianto, il dottor Giovanni Pirola. Una misura che, spiega, è in vigore solo dal 1° luglio 1998, due anni dopo l?epidemia inglese. In precedenza si pensava che bastasse sottoporre le teste a un trattamento termico a 133 gradi per scongiurare il contagio; poi qualche scienziato accertò che non era così, e si procedette all?incenerimento dei teschi. Con tante scuse ai consumatori che nel frattempo erano convinti di essere al riparo. «Oggi un animale che viaggia all?interno della Ue non subisce controlli alle frontiere», continua il dottor Pirola. «L?autorità veterinaria doganale è informata del tragitto compiuto dalle bestie, non delle loro condizioni di salute». Da qualunque posto provengano, gli animali vengono comunque sempre visitati all?arrivo al mattatoio, e una volta macellati si procede all?esame degli organi interni. Ma il cervello, anche nel caso degli animali italiani, non viene mai esaminato. E poi, ricorda il dottor Pirola, «i buchi ?a spugna? provocati dalla Bse non si vedrebbero comunque: se l?animale è arrivato al macello con le sue gambe significa che la malattia è nella fase iniziale». Quindi è praticamente impossibile diagnosticarla… «Esatto. Noi veterinari possiamo riconoscere un animale nello stadio conclamato di Bse, non certo in altre fasi. E meno che mai se il bovino non presenta alcun sintomo». E pensare che se solo 20 kg di carne infetta finissero nel ciclo produttivo industriale si esporrebbero al contagio da 225 mila a 1 milione e 125 mila persone. Parola dei ricercatori dell?università di Torino. Che stanno ancora aspettando dalla regione Piemonte una risposta alla loro semplice richiesta: poter tutelare i consumatori dai rischi della nuova, italianissima mucca pazza.


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