Welfare

Quante sorprese nelle uova di quaglia

commento

di Redazione

Si inizia con attività di volontariato o corsi di formazione per detenuti, che poi spesso si tramutano in esperienze imprenditoriali di successo. È così che il privato sociale entra in carcere e offre opportunità di inserimento lavorativo a centinaia di persone». La ricetta di Andrea Fora, responsabile tecnico dell’area Carcere di Confcooperative Federsolidarietà, è il frutto di un’esperienza concreta da record: il sistema Confcoop-Consorzio Gino Mattarelli vanta la presenza di cooperative sociali in ben 67 dei 205 penitenziari italiani, più cinque Ipm (istituti di pena minorili) e quattro Opg, (ospedali psichiatrico-giudiziari). In tutto, un fatturato complessivo che supera i 12 milioni di euro all’anno e almeno 600 detenuti in reinserimento. «Tutti assunti grazie alle agevolazioni della legge Smuraglia e alla legge 381/91 che disciplina il lavoro delle cooperative sociali», aggiunge Fora.
Il meccanismo con il quale nascono le varie realtà, comprese quelle aderenti a Legacoop, è spesso simile: le coop di tipo A (di servizi) si occupano della formazione dei carcerati, che poi vengono selezionati e assunti da coop di tipo B (di inserimento lavorativo) «che si creano una volta accertato che ci sia mercato per il settore in cui vogliono operare». I loro progetti sono il più delle volte cofinanziati dalla Cassa delle ammende del Dipartimento amministrazione penitenziaria.

Il viaggio di Gulliver
È questa la storia, per esempio, di una delle best practice d’Italia, quella della Gulliver, cooperativa sociale di tipo B dell’universo Confcoop, che nel carcere di Perugia gestisce l’azienda agricola Podere Capanne e a Terni la panetteria Forno solidale, aperte con l’aiuto della Cassa ammende dopo corsi di formazione ad hoc tenuti grazie a fondi della Provincia da Frontiera lavoro, coop di tipo A.
«Lavorano in media quattro detenuti per ciascuna delle due realtà, 30 ore alla settimana dal lunedì al venerdì, guadagnano 500 euro netti come previsto dal primo livello del contratto nazionale», spiega Luca Verdolini, responsabile area Giustizia di Frontiera lavoro. La collaborazione dura circa due anni a causa del turn over carcerario, e spesso capita che una volta usciti i detenuti trovino lavoro: «In sei anni sono almeno 20 gli assunti da aziende esterne». La clientela di Gulliver è sorprendente. «L’azienda agricola rifornisce di frutta e verdura cento famiglie di un gruppo d’acquisto e vari ristoranti della zona», precisa Verdolini. Mentre la panetteria ha stretto rapporti sia con l’amministrazione del carcere di Terni («fa il pane per i detenuti») sia con il circuito dell’equosolidale: «I panettoni e i cantuccini di Altromercato li abbiamo fatti noi».
La cucina è il piatto forte anche dei detenuti romani del nuovo complesso di Rebibbia, dove la coop Men at work dà lavoro a 28 persone, tra cui due ergastolani, che ogni giorno prepararano i pasti per gli altri 1.740 detenuti. Dal 2003 hanno lavorato per la cooperativa 120 persone. I recidivi? «Solo due. Questi cuochi “ristretti” vengono selezionati dopo un corso formativo di 150 ore al quale segue un vero e proprio esame di idoneità», spiega Luciano Pantarotto, presidente della coop, che nel 2009 ha fatturato 1,1 milioni di euro e i cui dipendenti sono stati richiesti persino dalla Croce Rossa per gestire le cucine delle tendopoli nate dopo il terremoto aquilano. «La selezione è importante perché a volte ai detenuti non interessa lavorare ma solo farsi vedere di buon occhio da chi poi dovrà decidere il loro futuro», chiarisce Pantarotto.

Costruire buoni rapporti
Stanare gli opportunisti è uno dei tanti problemi con cui ha a che fare la cooperazione sociale quando entra in carcere. «Un’altra difficoltà è avviare buone relazioni interpersonali con il personale penitenziario», riprende Fora, «è un impegno che richiede del tempo e che spesso le aziende private non hanno mentre le cooperative riescono a trovare».
Un buon rapporto con direttore, ispettori e guardie carcerarie apre letteralmente le porte: «I serramenti del carcere di Marassi a Genova sono fatti da otto detenuti di Sanremo, assunti dalla coop Galeotta», ricorda Gianni Pizzera, responsabile carcere di Cgm (del cui consorzio Tassano fa parte Galeotta) e da non molto referente operativo anche per Confcoop. La stessa cooperativa di tipo B sta formando 16 detenuti per lavori di saldocarpenteria, e uno dei primi clienti sarà la prefettura di La Spezia. A Torino, invece, la coop Ergonauti del consorzio Kairos dà lavoro a 35 persone, «22 delle quali nella mensa dell’istituto di pena Lorusso e Cotugno, sei in un servizio di catering esterno che fattura 300mila euro l’anno, altri due mettono a posto i pullman della Gtt, l’azienda di trasporti cittadina», continua Pizzera, «mentre gli ultimi quattro gestiscono lo spaccio interno».
Anche negli istituti minorili le best practice non mancano. Per esempio in Sardegna. «All’Ipm di Quartucciu (Cagliari), tramite il consorzio di Cgm Luoghi per crescere, cinque ragazzi gestiscono una lavanderia che lavora per i traghetti che arrivano sull’isola, mentre a Firenze è attiva una gelateria», aggiunge Pizzera. Dai minori ai “veterani”. «Un ergastolano 60enne di Secondigliano (Napoli) è oggi aiuto cuoco nella cucina del consorzio Gesco di Legacoop. E con lui abbiamo formato altre 16 persone con pene medio-lunghe», spiega Rosanna Di Fiore di Gesco. Mentre un ex detenuto ha un lavoro di falegname nato grazie alla formazione intramuraria avuta dalla coop L’uomo e il legno, che prepara anche futuri imbianchini.

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