Non profit

«Io, ex direttore generale, vi spiego la differenza fra curare e prendersi cura». La lezione di Alberto Scanni, manager in camice bianco

Dopo l'addio al Sacco di Milano

di Redazione

Ho sempre detto, con disappunto di molti, che fa meglio il direttore generale di un ospedale chi è medico e soprattutto chi è stato un clinico. Dico un clinico, e non un igienista o un medico del lavoro. Parlo di uno che nella sua vita ha visto tanti ammalati, li ha visitati, ha capito i loro problemi e quelli della loro famiglia, i semplici bisogni che si conoscono solo sul campo e ai quali si può dare una risposta solo se si sono toccati con mano. Non nego che altre figure possano dirigere altrettanto bene un ospedale, affermo soltanto che essere stato clinico è un valore aggiunto che fa guardare senza esasperazione pratiche burocratiche e bilanci, tutte cose importanti ma non più di una tettoia per riparare i malati dall’acqua o di qualche panchina per riposare. La cosa importante, per chi è stato clinico, è scegliersi, al di fuori di condizionamenti, un buon direttore amministrativo e un buon direttore sanitario, che devono condividere con lui obiettivi, indirizzi, percorsi strategici.
Questa premessa è doverosa se si vuole avere la testimonianza dell’attività di un direttore generale, il sottoscritto, che è stato un clinico, che ha da qualche giorno terminato il suo mandato e che era stato chiamato come tecnico alla direzione generale di un grande ospedale sede universitaria: il Sacco di Milano. L’esperienza è stata breve. Ma intensa! E oltre ad aver permesso la realizzazione in breve tempo di nuove strutture si è concentrata su iniziative di accoglienza e umanizzazione, partendo dal presupposto che non basta curare ma ci si deve prendere cura del paziente e anche della sua famiglia, giacché quando la malattia tocca quest’ultima, molte sono le angosce e i disagi che deve affrontare.
Abbiamo ridotto le liste di attesa; realizzato un manuale multilingue per operatori e pazienti (data la presenza al Sacco di malati di diverse etnie); introdotto i mediatori culturali; colorato ambienti e reparti per renderli meno opprimenti, più gradevoli e caldi; intensificato la collaborazione con le associazioni di volontariato, riconoscendole come soggetti portatori di valori indispensabili per una vera sussidiarietà. Abbiamo aperto l’ospedale al territorio organizzando un open day. Abbiamo realizzato postazioni informatiche per i bambini della pediatria in modo che i dimessi potessero, anche a distanza, colloquiare con i loro pediatri e costruito per la loro degenza un parco giochi. Per quanto attiene ai rapporti aziendali si è cercato di fidelizzare tutti gli operatori, indistintamente, all’ente di appartenenza, mantenendo sempre la ” porta aperta” e dichiarando e testimoniando la disponibilità all’ascolto.
In quest’ottica ogni nuovo assunto veniva singolarmente ricevuto dal direttore generale che illustrava la filosofia aziendale in quattro punti: primo, curare bene l’ammalato e ricordare che anche quando ha torto ha sempre ragione, vista la sua situazione di debolezza e di inferiorità psicologica; secondo, essere gentili e usare il dialogo per sanare i conflitti; terzo, avere nel proprio lavoro quotidiano una dose di gratuità e di oblatività; quarto, credere fortemente nel proprio ospedale e sentirsi orgogliosi di appartenervi.
Dall’inizio di quest’anno altri guideranno il Sacco, le realtà impostate e concluse hanno ormai le gambe per correre e certamente la nuova guida potrà metterle a frutto. Da parte di chi scrive vi è un po’ di rammarico per non poter concludere alcune iniziative – avviate o in cantiere – e di nostalgia per gli intensi rapporti umani realizzati con medici, infermieri, operatori sanitari vari,. Ma questa è la vita, quello che conta è aver seminato.

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