I numeri sono a dir poco draconiani. Nel 2011 gli enti locali potranno spendere per iniziative di carattere culturale (il testo governativo parla di “investimenti”) il 20% di quello speso nel 2009. Cioè una riduzione dell’80%. Sempre nel 2011 il Fus – Fondo unico per lo spettacolo, lo strumento con cui lo Stato sostiene cinema, teatro e lirica, passerà dai 410 milioni erogati quest’anno a una previsione di 270/280 milioni. Sempre che, come promesso da Gianni Letta, il Milleproroghe non metta una pezza. Sotto la mannaia è finita anche la tax credit, il sistema di credito di imposta che aiuta le produzioni cinematografiche e che ha attirato in Italia, quest’anno, numerose produzioni americane (“The American” di George Clooney e “The Tourist” con Johnny Depp e Angiolina Jolie, per citarne due). Teatro, cinema, l’intero sistema dei beni culturali è sul piede di guerra. Dopo l’adunata di quasi tutto il mondo dello spettacolo al Capranichetta a inizio dicembre, per il 28 è annunciata un’altra iniziativa spettacolare: lo sciopero alla Scala, con la sospensione della settima replica della Valchiria, diretta da Daniel Barenboim, l’opera che ha aperto la stagione.
In Italia il settore culturale occupa 550mila persone, ha un valore di circa 40 miliardi di euro pari al 2,6% del Pil nazionale. Un dato che smentisce la battuta del ministro dell’Economia Tremonti («con la cultura non si mangia»), ma lascia aperte due questioni di fondo: qual è la ricaduta in termini di qualità e di sviluppo reale; e quanto di quella cifra dipende dal finanziamento pubblico. E le due questioni sono più connesse di quanto non sembri.
Per fare due paragoni, in Gran Bretagna e Francia il settore cultura raggiunge rispettivamente il 3,8% e il 3,4% del Pil. Un dato paradossale se si pensa che il patrimonio italiano è superiore a quello dei due Paesi messi insieme, con 3.400 musei, circa 2.000 aree e parchi archeologici e con ben 43 siti Unesco. «È evidente il gap competitivo e la scarsa capacità di sviluppare il potenziale del nostro Paese», commenta Giacomo Neri, di PricewaterhouseCoopers Advisory, che ha realizzato la ricerca. Giustamente attori e produttori rivendicano uno status di “industria”, con tanto di produzione di ricchezza e di conseguenza di ritorno per lo Stato in termini erariali. Ma quest’industria ha due grandi fattori fragilità: il conservatorismo e l’eventologia.
Conservatorismo. Il caso della lirica
Dei giacimenti culturali italiani, la lirica è certamente tra i più noti a livello globale, ma anche tra i più onerosi. I 14 enti lirici si prendono quasi metà del Fus, e i numeri che li riguardano hanno risvolti sconcertanti: ciascuno spettatore del Teatro San Carlo di Napoli usufruisce di una sovvenzione media di 400 euro. L’incidenza dei contributi passa da un massimo del 91% (Teatro Massimo di Palermo) a un minimo del 34,9 (Arena di Verona). Quanto al rapporto fra i ricavi delle vendite e i costi della produzione, nel 2007 l’Arena di Verona (46,2%) e la Scala di Milano (32,7%) presentano i valori più elevati; il Lirico di Cagliari (8,7%) e il Massimo di Palermo (8,1%) quelli più bassi.
«L’auspicata autonomia della lirica italiana dal sostegno pubblico, e in particolare dal contributo statale, non si è realizzata», commenta Marzia Ravenna, project manager presso l’Osservatorio economico della Sardegna, che ha realizzato la ricerca. «La partecipazione dei privati è limitata e incerta, modesto l’intervento degli enti locali».
La questione non è quella di mettere in discussione il contributo statale, senza il quale il teatro d’opera smetterebbe di esistere in ogni parte del mondo. Ma valutare qualità ed efficacia. Il teatro lirico oggi ha poco più di 2 milioni di spettatori all’anno, che per reddito e preparazione culturale fanno parte della fascia alta della popolazione. Come spiega Michele Trimarchi, docente di Economia del diritto, «l’espansione di un nuovo pubblico è una condizione essenziale per legittimare un tale impegno». Tra i limiti dei teatri lirici italiani c’è la ridottissima attività: ogni alzata di sipario moltiplica i costi. Propone Trimarchi: «Incoraggiare la produzione e la vendita di beni e servizi connessi all’opera; introdurre gradualmente un sistema di repertorio che coesista con alcuni allestimenti nuovi».
I teatri d’opera utilizzano prevalentemente il modello di produzione “a stagione” (ogni opera in cartellone ha un cast ad hoc), che comporta un’incidenza elevata dei costi variabili sui costi totali. Spiega Marzia Ravenna: «In Austria, Germania e in parte Regno Unito si segue invece il modello a repertorio: stesso cast per tutte le opere in cartellone. Magari cala un po’ la qualità, ma genera economie di scala». Con la conduzione del sovrintendente Stéphane Lissner, la Scala sta riuscendo nella scommessa: ha raggiunto le 309 alzate di sipario l’anno e un quinto degli spettatori, su un totale di mezzo milione, è sotto i 30 anni.
Tre case history romane
Nella capitale ci sono tre grandi istituzioni musicali e rappresentano tre casi emblematici, di segno davvero opposto. Il Teatro dell’Opera è un po’ il simbolo del conservatorismo sotto il cui peso è a rischio il destino della lirica italiana: ha 603 dipendenti, prende quasi 44 milioni di contributi pubblici e ne raccoglie poco più di 3,3 dai privati. Anche l’Accademia di Santa Cecilia è un’istituzione storica e viene premiata dal Fus con un contributo di 17 milioni. Ma riesce a raccoglierne oltre 7 dai privati e dallo scorso anno ha inaugurato una buona pratica modello: ha stilato un Bilancio di missione in cui ha esposto con trasparenza i numeri e ha analizzato la propria capacità di creazione di valore sociale.
Infine c’è un terzo caso, ed è quello dell’Orchestra sinfonica romana, nata nel 2002, che riceve un contributo minimo dal Fus ed è sostenuta, oltre che dalla vendita dei biglietti, da una fondazione bancaria, la Fondazione Roma.
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